La crisi e la disuguaglianza
Le cose, tuttavia, potrebbero cambiare. Possiamo anche parlare del significato della vittoria di Bill de Blasio nella corsa a sindaco di New York o della convalida da parte di Elizabeth Warren dell’espansione di Social Security. E resta ancora da vedere se la dichiarazione del presidente Barack Obama secondo cui la disuguaglianza è «la sfida che definisce la nostra epoca» si tradurrà in qualche cambiamento politico. In ogni caso, la discussione si è già spostata al punto da suscitare una reazione eccessiva da parte degli esperti che sostengono che la disuguaglianza non è poi chissà che grande problema.
Hanno torto.
L’argomentazione migliore per dare alla disuguaglianza una bassa priorità è lo stato depresso dell’economia. Non è forse più importante ripristinare la crescita economica invece di preoccuparsi di come sono distribuiti gli utili della crescita?
Beh, no. Prima di tutto, anche solo guardando all’impatto diretto che ha l’aumento delle disuguaglianze sulla classe media americana ci si accorge che di fatto esso crea davvero un grosso problema. Oltre a ciò, molto probabilmente la disuguaglianza ha rivestito un ruolo fondamentale nel provocare il caos economico nel quale ci ritroviamo, e ne ha rivestito uno cruciale nel nostro dimostrarci incapaci di mettere a posto le cose.
Ma partiamo dalle cifre. In media, gli americani oggi continuano a essere molto più poveri di quanto fossero prima della crisi economica. Per il 90 per cento delle famiglie che guadagnano meno, questo impoverimento riflette sia un restringimento della torta economica, sia una percentuale in calo di quella torta. Che cosa ha avuto maggiore importanza? La risposta, sbalorditiva, è che le due sono più o meno equivalenti. In altri termini, la disuguaglianza è aumentata così rapidamente negli ultimi sei anni da fungere da enorme peso morto per i redditi dei normali americani, tanto quanto una mediocre performance economica, anche se questi anni comprendono quelli della peggiore recessione economica che ci sia stata dagli anni Trenta.
Se poi si assume una prospettiva sul più lungo periodo, l’aumento della disuguaglianza sta diventando di gran lunga il singolo fattore più importante dietro alla stagnazione dei redditi della classe media.
Oltre a ciò, se si cerca di comprendere sia la Grande Recessione sia la non così grande ripresa che le ha fatto seguito, gli impatti economici e soprattutto politici della disuguaglianza incombono minacciosi all’orizzonte.
È ormai comunemente riconosciuto che l’indebitamento in forte aumento dei nuclei famigliari ha contribuito a spianare la strada alla nostra crisi economica. Questa impennata del debito è coincisa con l’aumento della disuguaglianza, e i due fenomeni probabilmente sono correlati (sebbene ciò non sia inoppugnabile). Dopo che la crisi ha colpito, il continuo spostamento dei redditi dalla classe media verso una piccola élite è stato di ostacolo per la domanda dei consumatori, e di conseguenza la disuguaglianza è collegata sia alla crisi economica sia alla debolezza della ripresa che le ha fatto seguito.
Dal mio punto di vista, tuttavia, il ruolo veramente cruciale rivestito dalla disuguaglianza nella catastrofe economica è stato di natura politica.
Negli anni prima della crisi, a Washington prevaleva un notevole consenso bipartisan a favore della deregulation finanziaria, consenso non giustificato dalla teoria né dalla storia. Quando è subentrata la crisi, c’èstata una corsa a salvare le banche. Ma, non appena si è conclusa questa fase, si è affermato un nuovo consenso, che ha comportato di lasciar perdere la creazione di nuovi posti di lavoro e di concentrarsi sulla presunta minaccia derivante dai deficit di bilancio.
Che cosa hanno in comune i consensi pre-crisi e quelli post-crisi? Entrambi sono stati devastanti dal punto di vista economico: la deregulation ha contribuito a rendere possibile la crisi, e la precipitosa svolta verso l’austerità fiscale ha fatto più di qualsiasi altra cosa per intralciare la ripresa. Entrambi i consensi, tuttavia, corrispondevano agli interessi e ai pregiudizi di una élite economica la cui influenza politica è balzata alle stelle in parallelo con la sua ricchezza.
Ciò diventa quanto mai chiaro se cerchiamo di capire perché Washington, nel bel mezzo di una crisi dell’occupazione che si protrae, per taluni aspetti è ormai ossessionata dalla presunta necessità di tagliare Social Security e Medicare. Questa ossessione non ha mai avuto senso, dal punto di vista economico: in un’economia depressa con tassi di interesse bassi quasi da record, il governo dovrebbe spendere di più e non di meno. Oltre a ciò un’epoca di disoccupazione di massa non è certo il momento più opportuno per concentrarsi sugli eventuali problemi fiscali nei quali ci imbatteremo a qualche decennio di distanza. L’attacco a questi programmi, per altro, non è avvenuto su richiesta dell’opinione pubblica.
I sondaggi condotti presso i soggetti molto facoltosi, tuttavia, hanno messo in evidenza che — a differenza dell’opinione pubblica in generale — essi considerano i deficit di bilancio una questione cruciale e sono favorevoli quindi a ingenti tagli nei programmi assistenziali e alle reti di sicurezza. Indubbiamente, le prioritàdi quelle élite hanno il sopravvento sul nostro discorso politico.
Ciò mi porta al mio punto finale. Dietro a una parte delle reazioni eccessive contro il dibattito sulla disuguaglianza credo che c’è il desiderio di alcuni grossi esperti di depoliticizzare il nostro discorso economico, di renderlo tecnocratico, non di parte. Ma questo è un sogno impossibile. La classe sociale e l’ineguaglianza finiranno sempre coll’influenzare — e distorcere — il dibattito perfino in relazione a quelle che possono apparire questioni puramente tecnocratiche. Il presidente, dunque, aveva ragione. La disuguaglianza è davvero la sfida che definisce la nostra epoca. Faremo qualcosa per raccogliere tale sfida e reagire adeguatamente?
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