by Sergio Segio | 15 Dicembre 2013 8:23
In tre anni Dublino ha rimesso il deficit e il debito sotto controllo, i tassi sui suoi bond decennali sono scesi dal 15 al 3,5 per cento (sotto i livelli spagnoli e italiani, nota maliziosamente ma realisticamente il Financial Times ) e il prodotto interno lordo, già dal 2012, è tornato a salire (nel 2014 è previsto il più 1,7 % e nel 2015 addirittura il 2,5).
L’ex tigre celtica sconquassata dalle follie immobiliari e monetarie delle banche e dall’assenza di efficaci politiche di controllo da parte dei governi ha riacceso il motore e avrebbe più di un motivo per celebrare enfaticamente il ritorno alla autonomia decisionale di bilancio che le era stata sottratta con il piano di assistenza internazionale. In verità, i toni, con cui l’Irlanda di centrosinistra e di centrodestra (alleati nella crisi) accompagna il suo reingresso nei mercati, sono piuttosto misurati. Ed è un buon segnale perché prevale la consapevolezza che il trionfalismo propagandistico, così scioccamente abituale nel mondo della politica, si scontrerebbe pesantemente con gli umori dei cinque milioni di cittadini costretti a rimboccarsi le maniche in questo triennio di tagli e, soprattutto, risulterebbe brutalmente stonato rispetto ai problemi che ancora angustiano l’economia e la società irlandese.
Dublino ha svoltato ma «la strada è ancora lunga» (ammissione del ministro delle Finanze) in quanto permangono squilibri gravissimi a cominciare dalla disoccupazione: è vero che nel 2010 e 2011 ogni mese 7 mila lavoratori restavano a casa e che oggi il trend si è fermato, però l’indice che misura la forza non più attiva è altissimo (oltre il 13 per cento) e che il numero degli irlandesi emigrati o emigranti è in preoccupante crescita, 80 mila nell’ultimo anno. Un sintomo, questo, che suona come un monito: un conto è recuperare la fiducia dei mercati e della troika (Ue, Bce, Fondo Monetario), passaggio importante, e un conto è recuperare la fiducia e l’ottimismo della gente che chiede lavoro e lavoro a casa propria.
Si possono ricavare dal caso Irlanda molte lezioni. Certamente la signora Merkel avrà modo di rimarcare che le sue ricette di austerità sono quelle corrette. E certamente chi vuole la stabilità finanziaria avrà modo di insistere giustamente che vanno imposti vincoli operativi e giuridici per impedire alle derive truffaldine bancarie di scaricarsi sullo Stato e la collettività. C’è però un punto sul quale il caso Irlanda resta aperto: il lavoro.
I numeri macroeconomici sul deficit e sul debito possono soddisfare l’Europa ma se i numeri del lavoro pesano, deludono e preoccupano gli irlandesi (e tutti gli europei), allora l’opera resta incompiuta e le parole o le promesse dell’Europa non sono più credibili. E’ la sfida del presente, più importante, per l’Irlanda e per l’Unione. Senza il lavoro la crescita è un falso d’autore.
Fabio Cavalera
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