IL REALISMO DI ZAR VLADIMIR IN TEMPO DI CRISI

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LA RUSSIA è Vladimir Putin. O almeno così pare. Il padrone del Cremlino decide e revoca, premia e punisce, fissa la rotta e tiene la barra. Lo spettacolare doppio colpo di Natale, con la grazia a Mikhail Khodorkovskij e la scarcerazione delle Pussy Riot, conferma che Putin resta l’alfa e l’omega del sistema. Il vertice della “verticale del potere”, che nella sua visione — in ciò non diversa da quella degli zar o dei bolscevichi — è la condizione stessa dell’esistenza della Russia.
Il titolo di uomo più potente del pianeta, assegnatogli quest’anno prima da Foreign Policy poi da Forbes, è dunque ben meritato. La questione è semmai quanto solidi siano i superpoteri di Putin. E quanto utili al suo paese. Con un tasso di approvazione del 61%, la sua popolarità resta alta. Le recenti performance, dal caso Snowden alla Siria e all’Ucraina, ne esaltano l’abilità strategica e diplomatica.

TALE da permettersi quell’aria di annoiata sufficienza che tanto infastidisce Obama, e non solo lui. La piazza di Mosca, dopo una intensa ma breve stagione di contestazione, sembra di nuovo infiacchita, i suoi fatui leader impegnati a beccarsi più che a organizzare l’opposizione. Insomma, nulla di nuovo sul fronte russo? Non proprio.
Nel febbraio 2002, quando Putin non era ancora il padrone della Federazione Russa e il brillantissimo quanto spregiudicato oligarca Khodorkovskij accarezzava l’idea di succedergli – che gli costerà dieci anni di galera – la rispettata Nezavisimaja Gazeta definiva il paese «un Alto Volta con missili nucleari, grandi atleti e silenziosi funzionari». A tenerlo in piedi, l’immenso tesoro energetico, quasi nient’altro. A minacciarne l’integrità, i separatismi latenti nelle periferie dell’impero e le contese per l’accesso alle ricchezze e alle casseforti pubbliche. Oggi Putin può esibire la riconquistata sovranità della Russia, la ricomposizione delle fratture geopolitiche che dopo il suicidio dell’Urss rischiavano di balcanizzare l’impero. Ma a ben guardare, le cause strutturali dell’arretratezza russa non sono state curate.
L’economia è sempre idrocarburi, armi e traffici mafiosi. I due terzi delle entrate fiscali derivano da gas e petrolio. Per tenere in equilibrio il bilancio dello Stato occorrerebbe che il prezzo del greggio si collocasse stabilmente intorno ai 120 dollari al barile. La demografia resta più che deludente. L’aspettativa di vita dei russi (63 anni per gli uomini, 75 per le donne) è condizionata dall’alcolismo di massa e dalle deficienze della sanità pubblica. La corruzione continua a corrodere Stato e società civile. Non stupisce quindi che nel 2013 l’economia risulti in quasi stagnazione (+ 1,4%, meno della metà del previsto) e che le prospettive per i prossimi anni non siano esaltanti.
È in questa luce che conviene leggere la liberazione di Khodorkovskij e l’amnistia promulgata per il ventesimo anniversario della costituzione russa. Tali mosse non si spiegano con il cedimento alle pressioni dell’opinione pubblica occidentale, né solo con l’imminenza delle Olimpiadi di Sochi, che pure sono costate già 50 miliardi di dollari e rappresentano il massimo investimento d’immagine mai azzardato dalla Federazione Russa. Più convincenti appaiono due altre interpretazioni. In primo luogo, il Cremlino ha bisogno di investimenti esteri per diversificare e modernizzare l’economia, dunque deve dare qualche segnale di apertura alla comunità degli affari. Ma soprattutto, Putin adotta una strategia flessibile per dividere e cooptare le opposizioni.
Sotto questo profilo, il destino di Khodorkovskij è esemplare. Di fatto, l’ex uomo più ricco della Russia ha scambiato la libertà con l’esilio. In linea con gli altri oligarchi della prima e della seconda ora, ai quali Putin offrì subito l’alternativa secca: o dedicarsi agli affari rinunciando alla politica oppure scegliere fra carcere e gaudente quanto obbligato soggiorno oltre frontiera. Le prime dichiarazioni di Khodorkovskij, fra no comment su Putin e ostentata rinuncia alla politica, hanno rassicurato il Cremlino. Allo stesso tempo, l’ex capo della Yukos ha criticato la debolezza dell’opposizione e la tendenza dei suoi dirigenti a giocare all’“uomo forte”: «Se continuano così, avremo un secondo Putin». Ma se è vero, secondo Khodorkovskij, che la società russa non vuole ancora cambiare sistema per emanciparsi dal paternalismo dello zar di turno, cresce il numero dei cittadini decisi a prendere in mano il proprio destino («molti più di cinque o dieci anni fa»).
Sicché Putin alterna bastone e carota. Nelle stesse ore della liberazione di Khodorkovskij, finiva in carcere il noto agitatore ecologista Evgenij Vitishko, disturbatore della quiete olimpica con le sue campagne nel Caucaso settentrionale. Insieme, negli ultimi mesi il Cremlino ha aperto il dialogo con la parte più addomesticabile dell’opposizione nazional-popu-lista, offrendo cariche e prebende in periferia onde sradicarla dalle basi urbane (Mosca e San Pietroburgo), assai più strategiche per la stabilità del sistema.
Con l’economia in sofferenza e la rendita energetica sempre meno copiosa, la gestione degli oppositori non basta. Conquistato un posto d’onore nel Pantheon della storia patria come salvatore di ciò che residua dell’impero, ma non avendo affatto rinunciato all’idea di recuperare gran parte delle terre perdute nel 1991, Putin non può sperare di offrire un futuro dignitoso alla Russia senza riformare alle radici un regime asfittico. A costo di rischiare quel posto che Khodorkovskij non può più contendergli. Dopo il confronto televisivo del febbraio 2003, quando l’allora petroliere e finanziatore delle opposizioni filo-occidentali lo mise alle strette, Putin confidò al capo della British Petroleum, Lord Browne: «Da quell’uomo ho mangiato più polvere del necessario». Khodorkovskij l’ha pagata cara. Resta da stabilire quanta polvere dovranno mangiare i russi prima di vedere qualcuno – soprattutto qualcosa – di nuovo al Cremlino.


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