by Sergio Segio | 23 Dicembre 2013 7:59
E già nei prossimi giorni potrebbe presentare un disegno di legge, o addirittura un decreto, per fare fronte a quella che può trasformarsi in un’emergenza, anche tenendo conto del periodo delle festività natalizie. Lo dice con chiarezza il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico quando afferma: «Si tratta di luoghi di costrizione che costano moltissimo e non hanno alcuna utilità. Sulla necessità di superarli siamo tutti d’accordo, ma intanto bisogna intervenire in fretta perché la situazione è diventata insostenibile. E dobbiamo farlo partendo da un dato incontrovertibile: se entro 30 giorni non si riesce a sapere il nome e la nazionalità dello straniero, difficilmente si otterrà un risultato. Dunque sono altre le strade che bisogna percorrere per garantire sicurezza ai cittadini e al tempo stesso offrire condizioni di vita dignitose a chi arriva in Italia e cerca di costruirsi un futuro. Ecco perché bisogna mettere subito un tetto molto più basso rispetto ai 18 mesi attualmente previsti dalla legge».
Il costo 41 euro al giorno
La trattativa tra Viminale e palazzo Chigi sulle modifiche alla Bossi-Fini va avanti ormai da mesi, più volte rallentata anche dalle resistenze del ministro e vicepremier Angelino Alfano che teme ripercussioni all’interno del centrodestra. Dopo il naufragio di Lampedusa il presidente del Consiglio Enrico Letta aveva assicurato che la legge sarebbe stata cambiata o addirittura eliminata. Ancora non se ne è fatto nulla, ma a questo punto sono diverse le «pressioni» per affrontare subito la questione.
Al primo punto del piano di interventi c’è proprio la revisione del sistema di identificazione degli stranieri irregolari. Perché nei Cie si vive in condizioni disumane e perché la spesa non appare più sostenibile rispetto ai risultati ottenuti. Basti pensare che ogni «recluso» costa in media 41 euro al giorno e a questo bisogna aggiungere i soldi per alcune attività delle forze dell’ordine, straordinari compresi.
La procedura in carcere
Uno sforzo che, almeno a leggere i dati, si rivela quasi inutile. Le stime dell’Interno assicurano infatti che appena il 40 per cento delle persone espulse lascia effettivamente l’Italia soprattutto perché la maggior parte dei Paesi di origine non accetta il rimpatrio. Tutti gli altri ritirano il foglio di via, escono dalla struttura, ma poi restano senza fissa dimora e spesso tornano a delinquere non avendo alcuna possibilità di regolare la propria posizione. Un numero appare indicativo per comprendere la situazione: tra il 2005 e il 2011 sono stati rintracciati nel nostro Paese 550 mila clandestini e il 60 per cento di loro aveva già un ordine di allontanamento firmato dal questore.
Nel decreto sullo svuotamento delle carceri firmato dal ministro Annamaria Cancellieri e varato la scorsa settimana c’è una norma ritenuta fondamentale dagli esperti per «alleggerire» il carico dei Cie. Impone infatti l’identificazione degli stranieri detenuti nelle carceri italiane e serve ad evitare che uno straniero senza documenti, dopo aver scontato la sua pena sconti un ulteriore periodo di detenzione presso i Centri in attesa di essere identificato dal Consolato competente, come invece avviene sempre più frequentemente. Anche perché ci sono Stati che rispondono dopo mesi alle istanze delle autorità italiane — il Senegal generalmente invia il lasciapassare al rimpatrio non prima di quattro mesi dalla comunicazione — e Stati che non forniscono alcuna risposta.
I centri chiusi
Da tempo Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti Umani del Senato, effettua visite nei Cie. E non a caso ha già formulato proposte urgenti di modifica alla normativa per evitare «a queste persone di vivere in condizioni di non luogo e non tempo visto che nessuno di loro sa perché è “recluso”, sa quanto rimarrà nella struttura e soprattutto sa dove andrà dopo. A tutto ciò si aggiunga che gli stranieri non hanno nulla da fare, perché non svolgono alcuna attività, non hanno neanche un libro da leggere o un corso da seguire come invece avviene nei penitenziari e vengono tenuti in condizioni anche sanitarie che non sono accettabili».
In Italia esistono dodici Cie, ma soltanto sei sono ancora aperti e quattro lavorano a capienza ridotta perché sono stati danneggiati durante le proteste dei mesi scorsi. Anche le forze di polizia hanno più volte sollecitato soluzioni alternative ed è proprio Manconi a sottolineare come sia possibile ricorrere a «misure di sorveglianza individuale che sono certamente più efficaci anche per la sicurezza dei cittadini visto che garantirebbero l’effettivo controllo degli stranieri non regolari».
Fiorenza Sarzanini
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