Il muro d’Europa
Ma ci sono orti, piantine di aglio e di tabacco, sentieri, zolle rivoltate, poderi arati, trattori, fienili. E campi minati. Ogni tanto salta in aria un cane o una capra, ogni tanto una donna o un bambino. Ogni tanto.
Dove il fiume fa una piccola piega e si ritira lasciando posto all’argilla, un reticolato di ottocento tonnellate d’acciaio è diventato la vera frontiera fra l’Europa e l’Asia. È il muro dell’Evros, dodici chilometri di metallo luccicante, pali, chiodi, cemento, lame e filo spinato per sbarrare il cammino alle carovane provenienti dall’Oriente. È alto quasi quattro metri ed è costato quasi quattro milioni di euro.
L’hanno finito di costruire un anno fa, a dicembre. Da una parte ci sono sonnacchiosi paesi greci, dall’altra i minareti delle moschee di Edirne. Da qui prima passavano a decine di migliaia, ora non passa più nessuno. Sopra la sua ferraglia volano solo poiane, falchi e sparvieri. I migranti adesso guadano il fiume più giù, verso Didimoticho. O più a nord, fra i boschi di Ormenio. L’attraversano a nuoto o su malandate chiatte, a volte affogano fra i vortici, a volte muoiono di freddo. Sono afgani, pachistani, sono armeni, curdi, iracheni, siriani, somali, egiziani. C’è perfino qualche tunisino e marocchino, che per non prendere il largo sui barconi nel Mediterraneo fa un lungo giro d’Africa. Vagano eternamente alla ricerca di un varco, non si fermano mai. Appena lo trovano, s’infilano. Ce n’è sempre uno sui centosessantasei chilometri che segnano il limite fra il territorio turco e quello greco. C’è sempre una breccia fra gli argini e la selva.
Dopo quello sull’Evros qualcuno ad Atene vorrebbe alzare un altro muro, ancora più imponente e ancora più alto. Sul bordo bulgaro che è a dieci minuti di auto dall’altro confine, c’è già uno steccato fra la città di Svilengrad e le pinete di Elhovo. Nel 2015 questa “barriera tecnica” — così la definiscono in gergo burocratico a Sofia — raggiungerà i trentasei chilometri. È un Continente intero che si sta chiudendo, che sta blindando ogni sua porta all’altro mondo. Le paure e gli egoismi che s’inseguono in quest’Europa balcanica forse, un giorno, prenderanno la forma di un unico grande muro.
Il nostro viaggio per arrivare al fiume Evros è iniziato a Nea Vissa, l’ultimo villaggio greco che sfiora la Turchia. Poi siamo scesi a Orestiada e a Kastanies, abbiamo visitato il “centro di ammissione” di Filakio, incontrato il capo della polizia della Grecia orientale a Komotini, ci siamo arrampicati sulle montagne di Sidero dove fra le sterpaglie sono sepolti quelli che l’Evros si è portato via nelle
gelide notti d’inverno. Come gli altri sprofondati nel Canale di Sicilia. Lo stesso destino.
Dov’è il fiume? Dov’è la frontiera? Eccola Nea Vissa, la nuova Vissa, fondata nel 1922 dopo che i turchi sull’altro fronte avevano cacciato i greci da quell’antica, una strada, una piazza, una taberna che serve cacciagione, il cartello del check point. Fino all’estate dell’anno scorso, dalle 3 alle 6 del mattino Nea Vissa era affollata da centinaia di profughi, si aggiravano nelle campagne, cercavano riparo nei casolari, si nascondevano alle ronde dei poliziotti. Il muro l’ha svuotata. Oggi Nea Vissa sembra un paese fantasma. Due bambini giocano davanti alla chiesa ortodossa, cortili deserti, quattro famiglie raccolte in un salone per festeggiare un battesimo. Sono tutti confusi dall’improvviso silenzio che ha avvolto le loro contrade. «Noi greci, fra qualche anno, potremo fare la stessa fine dei migranti e cercare di entrare come loro clandestinamente in altre nazioni», racconta Nichos Ntofis, il proprietario del bar Utopia. E il sindaco del vicino villaggio di Kastanies, Maria Liacha: «Quella del muro è stata la scelta migliore, forse però potevamo fare qualcosa di più per tenerli a casa». La cinta sull’Evros ha “salvato” due piccoli comuni e i suoi 2800 abitanti, ma non ha dato sollievo a una Grecia che resta un colabrodo nel suo fianco est. Chi s’avventura da Kabul o da Islamabad e percorre migliaia di chilometri in due e anche tre anni — a piedi, sui cassoni dei camion, su mezzi di fortuna — non si fa fermare da questo muro e da questo fiume.
Ma dov’è, dov’è l’Evros che s’ingoia esuli e profughi con tutti i loro sogni? E dov’è il muro della vergogna? È a seicento metri, a quattrocento, a duecento metri, è appena dietro la curva, è qui. Ma qui non c’è il muro e non c’è il fiume, qui c’è solo l’area proibita, una zona militarizzata per cinquecento metri. Ci sono teschi gialli che indicano morte e segnali rossi con la scritta mines, mine. Sono dappertutto, a destra e a sinistra di una baracca dove bivaccano soldati che imbracciano mitraglie. Dicono che le hanno piazzate «per i tank turchi». Le hanno nascoste fra questi campi nel ’74, al tempo della crisi fra Atene e Ankara per l’isola di Cipro. E le hanno lasciate lì, da quasi quarant’anni. L’alibi sono i carri armati di Ankara, ma su quelle mine perdono le gambe o la vita i disperati che dall’Oriente arrivano sino al fiume. Dal 1990 al 2008 almeno novantadue i morti, dati più recenti le autorità greche non ne danno. «Capita di sentire che qualcuno finisca a pezzi in quella striscia che c’è fra il fiume e Nea Vissa, i numeri veri però li tengono sempre segreti», dice Valantis Pantsidis, l’avvocato di Orestiada che difende chi
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