I tre giovani leader e la partita a scacchi su Strasburgo e i tempi dell’esecutivo

by Sergio Segio | 12 Dicembre 2013 10:57

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ROMA — Si vedrà se saranno gli epigoni della Seconda Repubblica o i padrini della Terza. Di sicuro, da ieri Letta Renzi e Alfano si muovono formalmente senza più balie né tutori, liberi dall’ipoteca dei vecchi leader che hanno segnato l’ultimo ventennio, e legati da uno stato di necessità più che dal voto di fiducia concesso al governo: tutti e tre devono sapere infatti che fuori dal Palazzo ci sono solo i Forconi, e che senza un punto di Pil e le riforme non potrebbero presentarsi dinnanzi al corpo elettorale. Non avrebbero scampo. Non a caso Renzi lo sottolinea, dicendo che «o sarà cambiamento o sarà fallimento»: parla per sé ma è come se fosse il portavoce anche degli altri due.
Certo, ognuno fa il proprio gioco in questa sfida di potere che si traguarda alla futura sfida elettorale, e che racchiude un cambio di generazione e insieme un cambio di linguaggio e di approccio alle cose della politica. Il neo segretario del Pd lo fa con la crudezza che lo contraddistingue, e siccome la Consulta — abolendo il Porcellum — gli ha scaricato l’arma del voto anticipato, smania per ottenere al più presto la riforma e conquistarsi il colpo in canna. Se così fosse, e se l’andazzo del governo non gli piacesse, non si farebbe scrupolo degli alti precetti che vorrebbero trasformare il semestre europeo in una sorta di semestre bianco. «Niente retorica», ha detto l’altra notte ai suoi gruppi parlamentari: «Non mitizziamo quell’appuntamento. È tanto importante, che nemmeno si sa chi è oggi il presidente di turno…».
Chissà se si è espresso così anche davanti al capo dello Stato, ma non c’è dubbio che Renzi sia pronto a fare anche un patto con il diavolo pur di avere entro la primavera una nuova legge elettorale. Il «diavolo» però non è Berlusconi, perché — per ragioni politiche e mediatiche — il capo dei democrat non intende rimettere in gioco il Cavaliere, che pure continua a corteggiarlo. È su Grillo che punta, consapevole che non pagherebbe dazio, visto che un pezzo dell’elettorato cinquestelle confina con il suo. Si capisce allora come mai Letta — nel suo discorso alle Camere per la fiducia — abbia provveduto a bombardare quella linea di demarcazione, provocando scientemente lo scontro con i parlamentari di M5S e il loro leader «eversivo»: l’intento era far saltare quel business politico che rischia di minare la stabilità del suo governo.
Toni e modi saranno diversi da quelli di Renzi, ma anche il premier è difficile da masticare. L’impegno assunto con Alfano vuole onorarlo fino in fondo, perciò ha smentito le voci che lo vorrebbero pronto a smarcarsi per un incarico in Europa, rassicurando i dirigenti del Nuovo centrodestra che ieri in Parlamento sono andati a chiedergli lumi: «Dopo le primarie non potrebbe andar meglio, fidatevi». Sarà, ma come Letta ha fatto con i grillini, il leader del Pd continua a fare con gli alfaniani. «Ho il massimo rispetto per il partito di Giovanardi», ha detto, suscitando l’altra notte l’ilarità dei gruppi. È una guerra di nervi, «Angelino» lo sa, e sa che al momento l’arma del voto è scarica, perciò si appresta a replicare.
«Meno battute da avanspettacolo e più contenuti», dirà oggi il vicepremier in replica a Renzi: «Abbiamo pronto un pacchetto di proposte per il patto di governo, dal mercato del lavoro al fisco, alla riduzione del debito pubblico. Ed è chiaro che nel patto dovranno esserci anche le riforme istituzionali e la legge elettorale, e che tutto deve stare insieme. Se Renzi non ci sta, lo dica e si assuma la responsabilità della crisi di governo». Paradossalmente è più facile per il capo del Pd e il leader dell’Ncd trovare un’intesa sui temi economici che su quello delle riforme. Il problema è sul «timing» più che sui contenuti, così almeno sostengono i renziani, svelando il retropensiero del sindaco di Firenze.
La verità è che la sentenza della Consulta sul Porcellum ha legato i destini dei «rottamatori» della Seconda Repubblica, e che — superata l’inevitabile conflittualità iniziale — saranno «condannati» a trovare un’intesa che verrà sancita a gennaio. Se si arriverà a un rimpasto di governo prima o dopo le Europee, è solo un dettaglio. Il punto è che alle elezioni per Strasburgo dovranno arrivarci portando già qualcosa in dote ai loro rispettivi elettorati. In quel caso, l’orizzonte del 2015 sarà vissuto con minore preoccupazione dai tre giovani leader, già ieri elogiati dal New York Times .
A quel punto inizierebbe l’effetto dissolvenza sulla Seconda Repubblica e sui loro protagonisti che ancora adesso restano alla ribalta. La mossa di Prodi di partecipare alle primarie, per esempio, è stata vissuta senza stupore da Letta: «Romano è fatto così. Dice sempre di voler fare un passo indietro, ma poi è più forte di lui». E come Prodi, anche Berlusconi prova a resistere, sebbene qualche sera fa — durante una cena ad Arcore — abbia fatto stramazzare i lealisti: «Dobbiamo intanto rinnovare il gruppo dirigente. E poi comunque, per le elezioni, c’è sempre la possibilità di Angelino…».
Francesco Verderami

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