Grasso: avevo avvertito i partiti non potevo tollerare lo stallo

by Sergio Segio | 13 Dicembre 2013 7:20

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Presidente, sta abdicando?
« Assolutamente no», replica Pietro Grasso, seconda carica dello Stato, costretto a prendere atto dello stallo del «suo» Senato sul sistema di voto.
Cedere la riforma elettorale alla Camera perché il Senato non è riuscito a combinare nulla, non è un po’ un’abdicazione?
«Il problema che si è presentato è piuttosto semplice, e politicamente serio. Avevo spiegato da tempo che era indispensabile approvare una nuova legge elettorale al più presto, come d’altronde aveva ribadito più volte il capo dello Stato. L’avevo ripetuto a giugno, con risultati grami: la nostra commissione Affari costituzionali non è riuscita neppure a produrre un testo. E una settimana fa avevo mandato l’ultimo avvertimento: se continua lo stallo non esiterò a mandare tutto alla Camera».
E questa non è una certificazione di impotenza?
«Non nel momento in cui cominciano a porsi nuove attualità. La riforma costituzionale come era stata intesa, e cioè con una larga maggioranza, non è più possibile. E la mancata approvazione con il «sì» di due terzi del Parlamento ha prodotto l’effetto di sottoporre qualunque riforma costituzionale a referendum confermativi. Per forza di cose si deve applicare l’articolo 138 della Costituzione. Dunque è necessario riprendere il discorso sulle riforme e il problema irrisolto del sistema elettorale su nuove basi, e presto. Se c’è piena collaborazione fra Camera e Senato, l’idea è di velocizzare tutto. Il progetto è quello di creare due percorsi paralleli: da una parte la legge elettorale, dall’altra quelle che dovrebbero almeno portare al superamento del bicameralismo perfetto e all’abbassamento del numero dei parlamentari. D’altronde, sono processi speculari: è inutile arrivare a un sistema di voto che non abbia rispondenza nell’assetto istituzionale complessivo. Dunque, non è che la Camera ci scippi la riforma, né che noi ce la facciamo scippare».
Ammetterà che il passaggio può essere insidioso. Non cambia solo il ramo del Parlamento ma anche la maggioranza che discute la riforma. E il Nuovo centrodestra minaccia una crisi.
«Ma qualunque legge non dovrebbe comunque tornare al Senato, dopo il «sì» a Montecitorio?».
Il rischio di maggioranze diverse da quella di governo, alla Camera non è più alto?
«Ognuno si assume le sue responsabilità politiche. La palla la alzo, ma la devono schiacciare i partiti. Posso solo assicurare che io non sto mica lavorando per utilizzare una maggioranza diversa da quella del governo. Sto solo cercando di favorire il percorso di due commissioni che avranno compiti differenti ma dovranno scambiarsi informazioni sull’iter dei provvedimenti. Non sarebbe male creare un patto di consultazione fra deputati e senatori dello stesso gruppo, per agire in sintonia. Sarà utopia, ma se c’è volontà politica siamo nelle condizioni migliori per farlo».
La volontà politica è quella che invoca inutilmente Napolitano.
«E io sono d’accordo col presidente della Repubblica: deve emergere quella. Dopo il colloquio col presidente della Camera, Laura Boldrini, abbiamo deciso di insistere proprio su questo: sul senso di responsabilità che i partiti debbono mostrare. Oggi non abbiamo nemmeno un testo su cui discutere di legge elettorale, al Senato».
Può sopravvivere questa maggioranza ad una legge elettorale votata contro il Ncd di Alfano?
«Perché contro? Non capisco perché non possa crearsi anche alla Camera una maggioranza che veda un accordo del Pd e del Nuovo centrodestra sulla riforma elettorale. Io non escluderei a priori un’intesa del genere. D’altronde, il ministro delle Riforme istituzionali, Gaetano Quagliariello, ha mostrato una certa disponibilità. E ha detto che per lui è indifferente che se ne discuta alla Camera o al Senato: l’importante è che l’iniziativa sia coordinata col governo».
Si assume qualche responsabilità per quanto il Senato non ha fatto?
«Ci provo, se vuole. Ma ho cercato di stimolare i gruppi con azioni dirette e indirette. Ho avvertito che si rischiava di essere preceduti dalla Consulta, e dunque che la politica sarebbe stata sconfitta. Più che guardare indietro, preferisco registrare l’accelerazione degli ultimi giorni, dovuta all’assemblea dei parlamentari del Pd che ha chiesto il passaggio della riforma elettorale alla Camera. A quel punto è emerso un problema politico vero, perché il passaggio l’hanno chiesto in molti, perfino Fratelli d’Italia. E poi Sel e 5 Stelle. Esiste, dunque, una base politica. Per questo non accetto l’idea di un fallimento o dello scippo. Prendo atto che Camera e Senato mi dicono questo, e cerco di tradurlo in un vantaggio per le istituzioni».
Se per caso le riforme marciano, considera fisiologico lo scioglimento delle Camere al massimo entro la primavera del 2015?
«Assolutamente no. Perché fisiologico? Intanto, vorrei che l’inizio di questo percorso parallelo fosse definito prima dell’arrivo delle motivazioni della sentenza della Corte costituzionale che ha bocciato il cosiddetto Porcellum . Sarebbe l’inizio della rilegittimazione della politica. Fatta questa premessa, se le cose vanno bene, perché bisogna sciogliere il Parlamento? Io penso alla stabilità, non allo scioglimento. Credo che la stabilità sia necessaria: un’esigenza sul piano non solo politico ma economico e internazionale. E poi ho sentito Letta, mercoledì in Senato: ha esposto un programma preciso, che nel tempo il Parlamento deciderà se e per quanto appoggiare. Ma questo verrà dopo. Ora dobbiamo fornire strumenti per governare meglio il sistema».
La preoccupano di più gli attacchi al governo del M5S e di FI o quelli della maggioranza?
«Se riesce a fare le cose che dice, il governo di Letta non può avere attacchi. Deve essere lasciato sereno e tranquillo».
Il segretario del Pd, Matteo Renzi, lascerà Letta tranquillo?
«Penso di sì, perché sono convinto che cercherà di fare gli interessi del Paese e dei cittadini. Non vedo qualcosa di diverso, nel suo atteggiamento».
Non lo vede o non lo vuole vedere?
«Decida lei. Io non sono un dietrologo. Ripeto, in questa fase cerco soprattutto di razionalizzare al massimo gli strumenti che permettano al sistema di cambiare e di funzionare meglio. Il tentativo delle riforme va fatto. Altrimenti è inutile sorprendersi per la velocità con la quale la Chiesa cattolica di papa Bergoglio sta agendo».
Da voi non si è dimesso il Papa.
«Le dimissioni di Benedetto XVI e il fatto che convivano un pontefice e il predecessore sono un cambiamento. Significa che esistono un’amicizia e una concordia tra di loro che sarebbero difficili rintracciare nella politica, se si dimettesse qualcuno. Anche in questo dovremmo essere più lungimiranti».
Da come parla, viene da pensare che lei sarà l’ultimo presidente di questo Senato.
«Sono abbastanza sicuro che sarò l’ultimo presidente di questo tipo di Senato, non del Senato. Ma non voglio fare il commissario liquidatore. Il bicameralismo perfetto va rivisto, ma sui modi c’è bisogno di equilibrio: magari la redistribuzione dei compiti. Attività ispettiva e di controllo, commissioni di inchiesta, rapporti con l’Europa al Senato. Relazioni col governo, dalla legge di Stabilità ai decreti d’urgenza, alla Camera. L’obiettivo deve essere quello di eliminare i doppioni e velocizzare le decisioni».

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