by Sergio Segio | 15 Dicembre 2013 8:50
E ne sottolinea l’efficace equilibrio di pesi e contrappesi in politica come nell’economia e nelle istituzioni, la disponibilità collettiva al compromesso, se la posta in gioco sono l’interesse nazionale e il dovere di governabilità.
E’ vero che la Spd — sconfitta e minoritaria — non aveva altra strada, salvo attraversare un incerto deserto all’opposizione. Ma la dirigenza del partito non si è limitata a scendere a patti nelle stanze del potere. Ha costruito l’accordo dialogando con la propria base: una sorta di «primarie» sulle scelte da compiere, il che è anche un modo di riavvicinare gli elettori al partito e i cittadini alla politica. Il semaforo verde degli iscritti, conforta il cammino di ricostruzione e il lavoro dell’attuale dirigenza, altrimenti costretta a farsi da parte e a lasciare il partito allo sbando. La Spd strappa alcune concessioni sul sociale, in particolare su pensioni e salario minimo, e tiene a freno, pur all’interno della coalizione, le posizioni più rigide della Csu bavarese in materia d’integrazione e solidarietà europea. Inoltre — ma questa è più una soddisfazione di bottega — può sperare in un sostegno bipartisan alla candidatura di Martin Schultz alla presidenza della Commissione europea.
Angela Merkel, sia pure con sei ministri socialdemocratici in alcuni posti chiave (economia, esteri, giustizia, ambiente, lavoro e affari sociali, famiglia) può cominciare il suo terzo mandato e andare così oltre la storia: come donna, come leader europeo e come tedesca venuta dall’est comunista. Naturalmente, è quella che ha meno da perdere dalla «grande coalizione».
Ora si tratta di vedere se il nuovo quadro politico tedesco sia anche una buona notizia per l’Europa e soprattutto per l’Europa del sud (Francia compresa nella «categoria») che si aspetta o pensa di potere pretendere da Berlino concessioni a favore della crescita e qualche strappo al rigore finanziario. Certamente lo è rispetto ad altri risultati elettorali e a improbabili alleanze. E lo è rispetto alle condizioni in cui si è dovuta muovere la Merkel nelle acque agitate della più lunga crisi del dopoguerra e durante campagna elettorale.
Basta però riflettere su alcuni passaggi del «trattato» per ritenere eccessive le aspettative che si percepiscono a Parigi o a Roma e intravedere invece una sostanziale continuità. C’è un forte accento sulle misure per il lavoro, di sostegno alle politiche industriali, di perseguimento degli obiettivi di sostenibilità delle finanze pubbliche, escludendo forme di mutualizzazione del debito. E Wolfgang Schäuble resterà al timone delle finanze. La «Grande Svizzera», per quanto potente e proiettata sui mercati dell’Est, è tuttavia più cosciente che non può fare a meno dell’Europa e che non si va da nessuna parte se si rappresenta poco più dell’uno per cento della popolazione mondiale. Una «Starkes Europa» (un’Europa forte), come una Germania forte, dovrà prima o poi preoccuparsi davvero dei sintomi d’implosione, sull’onda dei populismi e di sentimenti antitedeschi.
La bussola della politica tedesca restano la salute dei conti pubblici e l’economia sociale di mercato, il modello che ha consentito prosperità alla Germania e che farà prosperare l’Europa. Sempre che l’Europa abbia voglia di diventare un po’ più tedesca.
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