by Sergio Segio | 30 Dicembre 2013 15:42
Un passo sollecitato e lungamente atteso da molte organizzazioni per i diritti umani anche perché il percorso “rieducativo” prevedeva spesso la tortura[1] affinché i reclusi rinunciassero alle loro idee politiche o religiose e alle loro opinioni personali.
Non è un caso, infatti, se dai campi della rieducazione attraverso il lavoro della Cina sono arrivate negli anni tante tremende testimonianze come quella di Zhang Lianying[2] che è stata per tre volte nei campi per la rieducazione a causa della sua fede religiosa. Nal famigerato campo di Masanjia (raccontato dal fotoreporter cinese Du Bin[3], che su Masanjia ha girato uno sconvolgente documentario e scritto un libro), la Lianying è stata sottoposta regolarmente, anche 20 volte al giorno, alla tortura della cremagliera: sdraiata su un telaio di legno, braccia e gambe legate a dei tiranti che venivano fatti girare provocando dolore intenso. A volte la denudavano e fino alla fine del “trattamento” non poteva andare in bagno, bere o mangiare. Adesso pestaggi, scariche elettriche, annegamento simulato (il “waterboarding[4]” di cui molto si parla a proposito degli interrogatori di sospetti terroristi da parte della Cia), iniezioni di sostanze sconosciute, minacce nei confronti dei familiari, diniego del cibo e delle visite dei parenti sembrano finalmente finite, ma le ricerche di Amnesty International[5] dimostrano che le autorità stanno incrementando l’uso di altri sistemi per punire le persone da “rieducare”.
In un documento in inglese e dall’ironico quanto amaro titolo “Changing the soup but not the medicine?”: Abolishing re-education through labour in China (.pdf[6]) reso pubblico la scorsa settimana Amnesty International[5] ha dichiarato che “l’abolizione del sistema della rieducazione attraverso il lavoro rischia di essere una modifica di facciata, poiché le autorità cinesi stanno già mettendo in opera altre forme di persecuzione”.??Secondo Amnesty International, mentre i campi della rieducazione attraverso il lavoro vengono chiusi, le autorità cinesi ricorrono sempre di più alle cosiddette “celle nere” cioè dei centri per la riabilitazione obbligatoria dei tossicodipendenti e dei “centri per il lavaggio del cervello”. “Abolire il sistema della rieducazione attraverso il lavoro è stato un passo nella giusta direzione. Tuttavia, pare trattarsi di una mera modifica di facciata per evitare la condanna dell’opinione pubblica nei confronti di un sistema in cui la tortura era la norma – ha dichiarato[7]Corinna-Barbara Francis, ricercatrice di Amnesty International sulla Cina – È evidente che la politica di fondo di punire le persone per le loro attività politiche o per la loro fede religiosa, non è mutata. Gli abusi e le torture continuano, solo in modo diverso”.
A quanto pare i vecchi campi per la rieducazione attraverso il lavoro vengono ora ristrutturati o viene loro semplicemente cambiato nome. Alcuni hanno riaperto o sono stati meramente chiamati “centri per la riabilitazione dei tossicodipendenti” anche se la maggior parte di questi offre ben pochi trattamenti disintossicanti e opera in modo praticamente identico ai campi per la rieducazione attraverso il lavoro, in cui i detenuti possono rimanere per anni, sottoposti a duro lavoro forzato e a maltrattamenti.?? Le autorità hanno inoltre aumentato anche l’uso dei cosiddetti “centri per il lavaggio del cervello”, talvolta denominati ufficialmente scrive Amnesty “classi per l’educazione legale”, destinati prevalentemente ai praticanti del Falun Gong[8] con l’obiettivo dichiarato di farli rinunciare alla loro fede attraverso i maltrattamenti e la tortura.
Sempre dal rapporto Changing the soup but not the medicine? risultano in aumento anche l’uso delle cosiddette “celle nere”. Si tratta di strutture detentive non ufficiali, spesso allestite casualmente in alberghi o edifici abbandonati, per imprigionare i promotori delle petizioni di protesta.?Queste carceri non hanno alcuna base legale nella legge cinese e le autorità continuano a negarne l’esistenza, lasciando i detenuti potenzialmente ancora più a rischio di subire violazioni dei diritti umani che nei campi per la rieducazione attraverso il lavoro. “Molti detenuti, dopo aver trascorso anni nei campi per la rieducazione attraverso il lavoro, ora vengono trasferiti nelle celle nere, nei centri per il lavaggio del cervello o nei centri per la riabilitazione dei tossicodipendenti, solo perché si ostinano a non rinunciare ai loro diritti e alle loro idee” ha denunciato[9] la Francis.
Occorre quindi un cambiamento profondo e non solo di facciata nelle politiche cinesi che sono alla base della repressione e che privano i detenuti dei loro diritti più elementari. Per questo “Le autorità cinesi devono porre immediatamente fine a ogni forma di detenzione arbitraria e assicurare che le leggi a tutela dei detenuti siano in linea con gli standard internazionali sui diritti umani” ha concluso[10] la Francis, che ha ricordato come “Fino a quando queste politiche saranno in vigore, le autorità cinesi si limiteranno a trovare una forma al posto di un’altra per punire le persone che considerano una minaccia”. Secondo dati diffusi dal Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite[11], attualmente sarebbero ancora circa 190 mila i cinesi ancora rinchiusi nei 320 campi di lavoro in fase di “smantellamento”. Molti di loro non possono più sopportare semplicemente un cambiamento di nome alla loro “rieducazione”.
Alessandro Graziadei[12]
Source URL: https://www.dirittiglobali.it/2013/12/cina-dai-campi-di-rieducazione-alle-celle-nere/
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