by Sergio Segio | 23 Dicembre 2013 7:35
TEHERAN — Raccontano che Hassan Rouhani, nella notte fra il 14 e il 15 giugno, si sia visto circondare la casa da un centinaio di Guardiani della Rivoluzione. Rouhani aveva appena vinto a sorpresa le elezioni presidenziali. Ma mostrandosi sull’uscio per parlare con i capi dei Pasdaran non era affatto sicuro se si trattasse delle prime misure di protezione o se fossero venuti ad arrestarlo. L’aneddoto, la cui veridicità non è per nulla accertata, è molto popolare nei luoghi pubblici, nei salotti, come nelle conversazioni in famiglia di un popolo ossessionato dalla politica. Ma vero o meno, è perfettamente sintomatico della condizione tutta speciale, densa di speranze, incertezze e timori, in cui la vittoria della fazione riformista ha posto l’Iran.
Presidente quasi per caso, costretto dallo strangolamento economico delle sanzioni «che mordono», per usare la metafora di Hillary Clinton, Rouhani ha aperto il primo spiraglio di dialogo sostanziale con l’Occidente dopo anni di chiusura totale. Limiti al programma nucleare, in cambio di un progressivo alleggerimento dell’embargo, che ha fin qui privato l’Iran di fondi tra 50 e 100 miliardi di dollari, congelati all’estero. Poi, il salto verso una totale normalizzazione dei rapporti con la comunità internazionale. Ma la sua finestra d’opportunità è breve. Il credito apertogli dalla Guida Suprema, l’ayatollah Ali Khamenei, è a tempo. E se la squadra dei progressisti, che Rouhani ha richiamato in servizio dall’emarginazione degli anni di Ahmadinejad non produrrà un accordo, i duri e puri del regime, in testa i Guardiani dai mille interessi economici, torneranno alla carica. Per questo il governo ha fretta ed è preoccupato. Ieri, il ministro degli Esteri Mohammad Zarif lo ha ripetuto a Emma Bonino, accolta con calore a Teheran, per una missione che ha confermato il ruolo di riferimento e di apripista che l’Italia ha assunto in questa fase: «Siete il Paese pioniere in Iran», ha detto Zarif nei colloqui riservati. Concetto poi ribadito dallo stesso presidente Rouhani nell’incontro con Bonino: «L’Italia è la nostra porta verso l’Europa». Al capo della Farnesina Zarif ha spiegato di temere i colpi di freno e le trappole, che in tanti stanno disponendo sulla strada del perfezionamento dell’intesa firmata a Ginevra in novembre con i Paesi del «5+1», i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza più la Germania. Perfino in pubblico, Zarif ha esortato a «non sabotare» il lavoro necessario «per completare e rendere pienamente operativo l’accordo». «Mi rendo conto che non sia facile — ha detto — che l’andamento non sarà veloce, ma bisogna andare avanti».
È una corsa contro il tempo. Nel clima d’attesa e speranza creato dall’elezione di Rouhani, dalla cruna dell’intesa sul programma atomico passa la possibilità di ridare fiato all’economia e alla classe media, messa in ginocchio dalle sanzioni e dalle politiche di Ahmadinejad, tutte rivolte a sovvenzionare i ceti più popolari. «Il sistema ha capito. Stavano perdendo la classe media e hanno tirato fuori Rouhani. Attenzione però, l’accordo con l’Occidente è nell’interesse di tutti: della nostra economia, non più che della vostra», spiega Firouz, un architetto che ha studiato in Europa. Declinato in italiano, è stato proprio Rouhani a ricordare che prima delle sanzioni l’interscambio con Roma era di 7 miliardi di dollari l’anno e oggi è ridotto a poco più di uno.
La tela di fondo è quella di una società in piena ebollizione. Parte autoritarismo religioso, parte democrazia, l’Iran è oggi un Paese dalla doppia identità. E sotto la crosta dell’ufficialità islamica, del proibizionismo imposto dalla sharia e della censura, si muove una realtà vitale e moderna. «Ci sono due società parallele — dice Firouz — e non è una novità. Ma quella civile è andata già molto avanti». Sono soprattutto i giovani, più della metà della popolazione, a fare la differenza. Amin, trent’anni, ha già al suo attivo diverse start-up: «La gioventù iraniana è colta, viva, ricca di idee, ha molto spirito d’iniziativa. E sta già cambiando il Paese. In un certo senso ignora la classe politica e i suoi giochi, è totalmente post-ideologica. Il potere degli ayatollah prima o poi finirà, ma non siamo interessati a farlo finire col sangue. Vede, la differenza tra le primavere arabe e l’Iran è che lì le rivoluzioni hanno portato tutte o quasi al ritorno dell’islamismo. Qui la società sta andando nella direzione opposta. La maggioranza dei giovani iraniani non prega».
Ci sono più di 300 gallerie d’arte a Teheran e nessuna censura riesce a impedire mostre come quelle della Mah Gallery di Shahnaz Khonsari: «Il ministero della Cultura e della Guida Islamica ogni tanto fa dei controlli, ma l’ultimo allestimento era dedicato a un’artista donna, surrealista e un po’ erotica. Non hanno detto nulla». «Siccome tutto è sulla carta proibito, quello che succede avviene in modo esagerato — dice la signora Nevihi Mahdavi — questo è un Paese che sta cercando la modernità quasi con frenesia. E nonostante la sharia, le donne sono la parte più attiva della società iraniana. Usano il velo per liberarsi e avere le possibilità di scelta degli uomini. Lo sa che il 60% della popolazione universitaria è composto da donne?».
Paolo Valentino
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