2013, la nuova carta geopolitica del petrolio

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Così tanto che il mondo del greggio come lo conosciamo da quando scoppiò la crisi energetica a inizio anni Settanta sta cambiando in tutto. Con effetti già oggi enormi. L’Opec, il cartello dei Paesi produttori, è sempre meno rilevante. I prezzi del barile, mai identici nei diversi continenti ma collegati, hanno preso a divergere a seconda della regione in cui il petrolio è venduto. Il costo dell’energia negli Stati Uniti sta calando vistosamente, un vantaggio competitivo enorme per l’economia americana. Persino la geopolitica del Medio Oriente inizia a risentire dei cambiamenti: l’Arabia Saudita, finora «regolatore» dei flussi di greggio globali e per questo beniamina di Washington, si sente sempre meno rilevante e più isolata.
Oggi, a Vienna, si riunisce — come ogni sei mesi — il consiglio dei ministri dell’Energia dei 12 Paesi Opec. Non ci si aspetta che prenda decisioni radicali: discuterà però della rivoluzione in atto e delle contromosse da pendere, forse già nel 2014. I fatti più importanti a cui deve rispondere sono tre. Primo e più rilevante, il boom dello «shale oil» in America: giacimenti di petrolio che, grazie alla tecnologia e al prezzo alto del barile, possono finalmente essere sfruttati. La Iea — Agenzia internazionale dell’energia — calcola che già nel 2015 gli Stati Uniti saranno il principale produttore al mondo. In secondo luogo, l’allentamento delle sanzioni all’Iran fa pensare che tra non molto tempo Teheran possa riprendere a esportare greggio: oggi ne produce 750 mila barili al giorno, nel giro di un anno potrebbe ripristinarne la produzione di un altro milione e mezzo. Terzo, nonostante attentati e inefficienze strutturali, in Iraq quest’anno la media prodotta dovrebbe essere attorno ai tre milioni di barili/giorno, livello che non toccava da vent’anni.
I problemi politici in Libia, i ritardi negli sfruttamenti in Kazakistan, i sabotaggi in Nigeria e Iraq vanno in controtendenza, ma non bilanciano l’aumento del crudo estratto. E nemmeno la crescita dei consumi nelle economie emergenti garantisce che tutto il greggio trovi chi lo usa a prezzi attorno ai cento dollari, che è l’obiettivo che si è dato l’Opec. Ieri, per la prima volta, a Vienna, a margine della riunione del cartello, esponenti dei Paesi produttori del Golfo Persico hanno ammesso che esiste, dal loro punto di vista, un eccesso di petrolio in America e potenzialmente anche in altri Paesi. «Negli scorsi due mesi — ha detto uno di loro — abbiamo venduto negli Stati Uniti a un prezzo di 12-15 dollari più basso che in Asia». A inizio agosto, il prezzo del crudo dei Paesi del Golfo venduto in America era di 106,10 dollari a barile (Indice Argus), nei giorni scorsi era attorno a 90 dollari: in quattro mesi, la differenza di prezzo con l’Europa si è ampliata da due a 20 dollari. Il calo prima ha colpito i produttori dell’Africa occidentale, storici fornitori degli Stati Uniti. Ma ora gli africani hanno iniziato a vendere in altre aree del mondo, in concorrenza con i Paesi del Golfo: la questione diventa globale.
Storicamente, l’Opec — che produce il 40% del greggio mondiale — ha agito da valvola di equilibrio del mercato. Quando il prezzo del Brent (una classificazione con la quale si prezzano due terzi del petrolio commerciato) crollò da 147 a 39 dollari a barile a causa dello scoppio della crisi finanziaria, i 12 Paesi del cartello tagliarono la produzione del 14%: il prezzo si riprese e da allora l’Opec ha mantenuto la sua quota di produzione a 30 milioni di barili al giorno (ieri il prezzo del Brent era di 112 dollari). Ora, però, l’enorme mercato americano importa meno (e a prezzi calanti); forse l’Iran tornerà a estrarre a pieno ritmo e ciò potrebbe fare calare il prezzo mondiale di dieci dollari a barile, secondo la banca Merrill Lynch; e l’Iraq continuerà ad aumentare la produzione: la situazione potrebbe sfuggire al controllo dell’Opec. I contrasti interni al cartello — tra Iraq e Iran ma non unicamente — fanno sì che il solo Paese disposto a fare da equilibratore e con la forza di farlo sia l’Arabia Saudita. Il suo ministro del petrolio Ali al-Naimi si dice tranquillo. Ma si tratterà di vedere fino a quando Riyadh sarà disposta a tenere in piedi l’Opec di fatto sostenendone tutto il peso. A maggiore ragione ora che le tensioni con l’Iran — sulle questioni siriana e nucleare — stanno raggiungendo un punto di crisi anche politico per il regime saudita. Con un punto critico: la grande quantità di shale oil estratta negli Stati Uniti. Riyadh deve decidere se continuare a esportare crudo in America anche se lì i prezzi sono di molto più bassi: se decidesse di fare un passo indietro, anche i rapporti diplomatici con il suo alleato storico, già molto sotto tensione, ne risentirebbero.
È il nuovo mondo dell’oro nero, solo abbozzato, per ora. Ma sarà diverso da quello in cui l’Opec decideva e l’America si rassegnava.


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