Il sogno del piccolo rom “Io, che diventerò maestro per non dover rubare”

by Sergio Segio | 31 Dicembre 2013 9:47

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TORINO. CI SONO i nastri colorati, le palle rosse e i rami d’argento. È quasi tutto in ordine. Quasi.
PERCHÉ a ben pensarci qualcosa manca all’albero di Natale di Rinaldo e di sua cugina Sara. Di giorno si nota poco, eppure manca. Certo, ecco che cos’è: mancano le luci, sono spente. Diciamo la verità: accenderle sarebbe uno spreco. Come trascorri la tua giornata, Rinaldo? «Aiuto mia madre». Come l’aiuti? «Metto la benzina nel generatore. Serve per le luci, per caricare i telefonini, per far funzionare il frigorifero». Il campo nomadi di Mirafiori, in fondo al corso della Fiat, è il meno noto, e dunque il più abusivo della città: non compare nemmeno sulle mappe degli accampamenti che circondano Torino. Eppure tra le baracche e il fango vivono a centinaia. Rinaldo è uno di loro. La madre cerca lavoro. Il padre invece un’occupazione ce l’ha: «Lavora al semaforo ». Anche Rinaldo ha un progetto per il futuro. L’ha scritto alla maestra Elisa parlando delle sue speranze per il 2014: «Da grande vorrei fare il maestro. Per imparare a non rubare».
Il campo nasce dove finisce la città. A due passi dall’ultimo palazzo di vetro, nuovissimo, magico, a forma di onda. Dentro le volute ci sono gli uffici più moderni, quelli dove si disegnano i nuovi modelli di auto per i produttori di tutto il mondo, dai tedeschi ai cinesi. Rinaldo tutto questo non lo sa. È arrivato qui alla fine del 2012, quando aveva nove anni: «Abbiamo viaggiato in furgone, un giorno e una notte. Veniamo dalla Romania». Per entrare nella baracca si salgono tre scalini di legno che garantiscono una buona distanza tra il pavimento e il fango. Servono anche, i gradini, a tenere lontani gli animali, come si faceva migliaia di anni fa con le palafitte. È successo proprio su quei gradini: «Un giorno Rinaldo ha sbarrato la strada a mio marito. Gli ha detto: “Papà, è meglio che tu vada al semaforo” ». Giulia, la madre, racconta la storia sorridendo. Ne ha viste tante. Ha imparato cinque lingue frequentando l’università dei campi nomadi di mezza Europa: «Devi imparare a capire in fretta». È questione di sopravvivenza. Per Rinaldo «leg-
gere e scrivere è importante. Serve a prendere la patente». Ma soprattutto, «serve a trovare un lavoro. E se hai un lavoro non hai più bisogno di rubare». Era stato questo il discorso fatto da Rinaldo a suo padre sugli scalini: «Andare al semaforo è un lavoro, andare al grande magazzino no».
Giulia spiega che «chiedere i soldi tutte le volte che diventa rosso può rendere anche 15 euro al giorno. Ma non è sicuro. E comunque non sono tanti. Certo, chi ruba guadagna molto di più». Rinaldo questo lo sa bene: «Qui nel campo molti rubano. Prendono le borsette, i telefonini, vanno al grande magazzino. Sono senza lavoro, si aggiustano così». Perché allora chiedere alla maestra di imparare a non rubare? «Da grande voglio fare il maestro anche io. Così avrò un lavoro, non avrò bisogno di andare ai grandi magazzini. E potrò insegnarlo agli altri. Per questo ho chiesto alla maestra di insegnare a non rubare». E se non riuscirai a fare il maestro? «Allora voglio fare il poliziotto. Ce n’è uno che viene sempre qui al campo, si chiama Ulisse». Che cosa viene a fare? «A controllare che tutto sia tranquillo».
Mentre parla, Rinaldo tormenta una palla rossa dell’albero di Natale. La rigira tra le mani, la fa dondolare. È agitato, nervoso. Si confessa: «Sai che prima non volevo parlarti? Non avevo tanta voglia di raccontare la mia storia. Poi mia cugina Sara mi ha convinto. In fondo è una bella cosa». Giulia, la madre, ed Elisa, la maestra, annuiscono. Imparare a non rubare non è una cosa di cui vergognarsi. Ma raccontare la propria vita a chi abita fuori dal campo può essere rischioso: «Quelli delle Poste – dice Sara – vogliono mandarci via perché di notte facciamo festa e disturbiamo». Poco distante dal campo c’è effettivamente un grande deposito delle Poste. Non sono certo gli impiegati a protestare. Sono gli abitanti del quartiere che sorge a poca distanza. Alti palazzi, aree verdi, un complesso nato per i colletti bianchi nel cuore dell’ex barriera operaia. Per questo il «Centro Europa», a Mirafiori Nord, è sempre stato considerato il quartiere dei ricchi anche se ricchi non se ne vedono molti. Elisa, la maestra, abita lì e lo dice con un po’ di ritrosia: «La petizione è passata anche nel mio palazzo. Un vicino di casa. Ha bussato una mattina, si è presentato con la cravatta verde dicendo: “Vorremmo che lei firmasse la petizione per far chiudere la fontana nei giardini pubblici”. Io ho chiesto perché mai si dovesse togliere l’acqua a una fontana che rinfresca chi passa in mezzo al giardino: “Perché quell’acqua la usano gli zingari del campo per andarsi a lavare. Certe mattine dalla finestra li vediamo che si lavano nudi”». La petizione ha raccolto un bel po’ di firme e per qualche mese Rinaldo e la sua famiglia non hanno potuto lavarsi alla fontanella. Poi qualcuno con po’ più di sale in zucca ha riaperto il rubinetto.
Ma perché fare questa vita? Perché partire dalla Romania su un furgone, girare mezza Europa e finire nel fango a Mirafiori sotto il meraviglioso palazzo a forma di onda? Ha ancora senso fare tutti questi sacrifici per inseguire il mito del nomadismo? «Ma noi non siamo nomadi», sorride Giulia mentre offre il caffè. Qui, al campo, di Tchajkovskji e del fascino zigano non si vede traccia: «In Romania – spiega Giulia – vivevamo in case di muratura, vicino a Timisoara. Poi gli affitti sono saliti e il lavoro è sparito. Siamo venuti in Europa perché cercavamo un modo di sopravvivere». Qui non sembrate averlo trovato: «Piuttosto che trascorrere l’inverno in una casa di lamiera in Romania è meglio farlo qui». Finché si può. Il fantasma che si aggira tra le casupole è quello che Sara e Rinaldo riassumono con efficacia: «Stiamo qui fino a quando non vengono a spaccare il campo ». Sara racconta: «A me è già capitato. Una mattina vengono, fanno uscire tutti. Poi arriva un braccio di ferro che rompe la baracca». Anche Rinaldo lo sa: «Per l’anno prossimo spero di continuare ad andare a scuola per imparare a leggere e scrivere. Così magari un giorno riuscirò davvero a fare il maestro. E speriamo che nel frattempo non vengano a spaccare la mia casa».

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