La Guerra Santa contro i Giochi così il Bin Laden russo sfida Putin
MOSCA — Non si può far finta di niente, la Guerra delle Olimpiadi è già cominciata da mesi. Mosca, San Pietroburgo, tutte le città russe sono in pericolo e si preparano a lunghi giorni di tensione e di invasive misure di sicurezza. Prima di ieri c’erano già state altre vittime, a fine ottobre, sempre a Volgograd, ex Stalingrado, simbolo ideale della voglia di Impero della Nuova Russia di Putin. Altre ne vengono minacciate ogni giorno dall’uomo più ricercato del Paese, dall’inafferrabile Emiro del Caucaso Doku Umarov che ha giurato di punire con un bagno di sangue la spericolata provocazione decisa dal Cremlino: imporre a tutti i costi un evento di interesse mondiale come i Giochi Olimpici Invernali in una delle aree a più alto rischio del Paese.
Sochi, la placida località balneare sul Mar Nero che il 7 febbraio vedrà accendere il braciere olimpico davanti alle televisioni di tutto il mondo, è infatti al centro di quello che gli osservatori internazionali come ad esempio l’International Crisis Group sostenuto da Bill Clinton e Kofi Annan, definiscono «il più sanguinoso conflitto esistente in Europa ». Una guerra vera, con una media di 700 morti all’anno, che Putin si ostina a nascondere al mondo limitando le notizie, veicolando tutte le informazioni, incaricando gli oligarchi di fiducia di distrarre l’attenzione con iniziative a effetto come la nascita di pretenziose squadre di calcio tipo Anzhi di Makhachkala o Terek di Grozny che hanno arruolato grossi nomi come Gullit, Roberto Carlos e Eto’o, pur di far dimenticare i massacri e gli orrori che si svolgevano regolarmente a bordo campo.
Le Olimpiadi, nelle intenzioni del Cremlino, avrebbero dovuto stendere un definitivo velo a cinque cerchi sulla guerra da dimenticare. Ma la scommessa rischia di dimostrarsi troppo azzardata. Proprio Doku Umarov, che qui chiamano a ragione “il Bin Laden russo”, aveva lanciato un anno fa la Guerra Santa contro i Giochi di Sochi. Con il tipico schema da Signore del Terrore: un video registrato da qualche parte delle montagne che dominano il mar Caspio, nel quale compariva con la sua lunga barba nera, una vistosa tuta mimetica e il fedele kalashnikov in pugno. Parole di fuoco: «Noi mujahiddin useremo tutti i mezzi consentiti da Allah per impedire che si svolgano i Giochi sulle ossa dei nostri antenati e delle migliaia di musulmani sepolti nelle nostre terre».
Parole che infervorano quell’incredibile miscuglio di popolazioni e etnie che abitano quelle terre (i ceceni, i cabardini, i circassi,
gli avari, i chazari, gli abcazi e altre decine) accomunati quasi sempre da un atavico rancore nei confronti della Russia e da un po’ di tempo omogeneizzati da una fede islamica sempre più integralista e vicina ai dettami della famigerata Al Qaeda.
Putin è preoccupato, invoca misure d’emergenza per «garantire la sicurezza ad ogni cittadino russo», ha già stabilito ossessivi controlli per ogni partecipante ai Giochi. Sa bene che Umarov è un nemico pericoloso è abile ma anche ben finanziato e organizzato. Questo quarantanovenne ingegnere votato alla guerriglia sa usare bene i tasti della religione e quelli della voglia di indipendenza di quelle terre. Sa emozionare la sua gente evocando le rivolte antirusse dell’ottocento soffocate a fatica dagli Zar. E sa anche suscitare la “solidarietà islamica internazionale” quando si rivolge ai «fratelli che combattono in Iraq, Afghanistan, Somalia e Palestina ». Il suo capolavoro strategico più recente è stato quello di inviare volontari delle sue montagne a combattere al fianco dei ribelli siriani che si oppongono al presidente Assad protetto da Mosca. Che siano o meno collegati da una alleanza finanziaria o militare, tutti gli integralisti islamici del mondo hanno adesso un nemico comune: le Olimpiadi di Sochi.
Per questo mentre nei giorni scorsi tutta la stampa mondiale si occupava dei soliti problemi organizzativi comuni a tutti i grandi eventi sportivi, Putin sapeva già che il problema era diverso e ben più grave. E rivedeva come in un incubo una vicenda avvenuta a poche centinaia di chilometri dalla “sua” Olimpiade: l’esplosione, nel 2004, della tribuna d’onore dello stadio di Grozny, capitale della Cecenia, con la morte tra gli altri, del presidente Ahmad Kadyrov, fido alleato di Mosca. Era lo stadio più controllato e sicuro di Russia. Ma l’esplosivo stava già da anni dentro a un pilastro. Piazzato con spaventosa lungimiranza in attesa dell’occasione propizia. E tenuto d’occhio dagli stessi fantasmi che adesso minacciano l’evento più importante e più atteso per la Nuova Russia dell’Era Putin.
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