La banca-città senza certezze e il rischio della nazionalizzazione

by Sergio Segio | 29 Dicembre 2013 9:03

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SIENA — Che sui destini del Montepaschi regni l’incertezza totale, lo dimostra il fatto che a seguire la conferenza stampa di Alessandro Profumo e Fabrizio Viola ieri c’erano anche i banchieri e gli avvocati coinvolti nell’aumento di capitale. Erano lì perché l’assemblea, su proposta della Fondazione guidata dalla neo presidente Antonella Mansi, aveva appena spostato da gennaio a maggio l’avvio dell’operazione da 3 miliardi. E non è affatto chiaro, neppure per loro, che cosa succederà ora alla banca più antica del mondo, il terzo gruppo bancario italiano che ancora oscilla tra salvezza e nazionalizzazione dopo anni di crisi legata alla maxi-acquisizione di Antonveneta.
I fronti aperti sono tre: uno, più politico, sulle possibili dimissioni di Profumo e di Viola e su chi potrebbe prendere il loro posto; l’altro, più finanziario, su come sarà impostata adesso la ricapitalizzazione; il terzo misto, politico-finanziario, su come la Fondazione riuscirà a salvarsi. Sul tavolo c’è stata fino a pochi giorni fa un’«operazione di sistema» tentata in extremis dal ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, con l’intervento delle fondazioni Cariplo, Compagnia di Sanpaolo e Cariverona, non riuscita per mancanza di tempo ma anche di convenienze economiche. Ora Mansi ha evitato la polverizzazione del patrimonio dell’ente di Palazzo Sansedoni e ha guadagnato cinque mesi preziosi per trovare investitori cui vendere gran parte del suo 33,5% della banca ripianando così i debiti. Altrimenti sarà stato uno scontro vano, tutto a danno della banca.
Innanzitutto c’è da sciogliere il nodo dei manager: Profumo si dimetterà? «Sono decisioni da prendere a mente fredda», ha detto il banchiere 56enne. Nei prossimi giorni si vedrà. Segno che forse attende che alcuni tasselli si mettano a posto. Forse vuole capire anche come si muoverà Saccomanni, «con cui mi sento innumerevoli volte, è il mio principale creditore».
Il banchiere lo ha ripetuto più volte: non è stato un palio tra me e Mansi. Alcune letture senesi dicono invece che sarebbe in corso proprio un riequilibrio politico: «Lui in città non è mai stato digerito, e poi viene visto come vicino all’area Pd dell’ex sindaco Franco Ceccuzzi legata alla vecchia guardia del partito», spiega un conoscitore delle vicende senesi. La 39enne Mansi invece, «che è anche vicepresidente nazionale della Confindustria, è sostenuta dagli industriali e dal sindaco renziano Bruno Valentini, che spera ancora in un ruolo per la fondazione nella banca».
Ma questo schema non è condiviso da tutti: anzi la rottura sarebbe stata causata piuttosto dalla polverizzazione del potere che ha fatto irrigidire le posizioni, entrambe legittime, di banca e fondazione, senza trovare alcuna mediazione. «Se gli attori direttamente o indirettamente interessati a partire dalle istituzioni nazionali, avessero assunto piena consapevolezza due o tre mesi fa dei nodi emersi in questi giorni forse oggi non ci saremmo trovati in questa situazione», commenta Simone Bezzini, presidente della Provincia di Siena, anch’egli Pd. E forse pensa anche ai silenzi sull’argomento dei due toscani più in vista del momento, il neo segretario del Pd, Matteo Renzi, e il premier Enrico Letta. Il mancato accordo ha fatto venire meno anche un altro aspetto, meno visibile: l’aumento di capitale a gennaio, già coperto dalle banche del consorzio di garanzia guidato da Ubs, Goldman Sachs, Citi e Mediobanca, «avrebbe consentito di restituire ai contribuenti italiani 3 miliardi di Monti bond, più 300 milioni di interessi», ha ribadito Profumo in versione civil servant.
Mansi ha specificato che «non è stato un atto di sfiducia» verso il management. Ma se Profumo e Viola dovessero dimettersi, chi potrebbe arrivare al loro posto? A Siena circolano da giorni i nomi di Lorenzo Bini Smaghi, ex membro del board della Banca centrale europea, e di Carlo Salvatori, numero uno di Lazard, che è l’advisor della Fondazione Mps. Al posto di Viola potrebbe essere promosso il direttore finanziario, Bernardo Mingrone: ha trattato direttamente con gli uffici del commissario alla Concorrenza, Joaquin Almunia, tutta la partita degli aiuti di Stato e dunque rappresenterebbe la continuità con la gestione Viola. Inoltre, come dirigente di Mps, ha già lo stipendio bloccato, secondo le regole europee dei salvataggi bancari.
Indipendentemente dai vertici, comunque la banca deve portare a casa a maggio l’aumento. E la politica c’entra ancora, per vari aspetti. Per Profumo, una delle maggiori incognite sono le elezioni: all’inizio dell’estate ci saranno quelle europee. Ma forse anche quelle anticipate. «E lei si immagina un aumento di capitale del Montepaschi, banca politica per eccellenza, sotto una campagna elettorale?», sospirava ieri uno dei banchieri coinvolti nell’operazione. Profumo aveva insistito per gennaio ben conscio delle difficoltà dei mesi passati. Ancora a settembre – racconta chi ha lavorato all’operazione – gli istituti contattati per il consorzio di garanzia rispondevano a Mps: ci dispiace, ma non è il momento di chiedere soldi al mercato, riparliamone a dicembre. Ora il timore è che il mercato possa richiedere una ricapitalizzazione persino più elevata, fino a 4 miliardi, per cautelarsi in vista del passaggio del Monte sotto la vigilanza della Bce.
E se invece l’aumento non arrivasse? Resta la carta estrema, la conversione dei Monti bond in azioni, ovvero la nazionalizzazione. Tecnicamente la scelta spetta ai manager. Ma non c’è dubbio che la decisione verrebbe presa dalla politica.
Fabrizio Massaro

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