La preoccupante crisi di liquidità in Cina

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Però, la frenata progressiva di Pechino preoccupa il mondo globalizzato. La settimana scorsa l’allarme è venuto dal suo sistema bancario che si è trovato di fronte a una crisi di liquidità, la seconda in sei mesi. I «tassi interbancari» a sette giorni, che misurano il costo del denaro che le banche si prestano tra di loro, è schizzato all’8,94%. È dovuta intervenire la Banca popolare di Cina (l’istituto centrale) con un’iniezione di 5 miliardi di dollari in un solo giorno nel mercato finanziario. La manovra è riuscita: ieri il tasso è sceso di 344 punti base, fino al 5,4%. «Il peggio di questo round è passato», hanno commentato gli analisti di Shanghai che però già aspettano la prossima scossa.
Che cosa succede alla Cina? Dopo trent’anni di corsa del Pil a doppia cifra, a una media del 10 per cento l’anno, il partito comunista ha capito e deciso che il modello va cambiato. Il presidente Xi Jinping e il premier Li Keqiang hanno adottato lo slogan della «crescita sostenibile», a passo più lento, per arginare la diseguaglianza sociale. L’economia nei prossimi dieci anni sarà orientata più verso i consumi interni e il settore dei servizi che le esportazioni sostenute da investimenti statali poco remunerativi, spesso in perdita. Serve un rallentamento guidato con estrema attenzione, per evitare quello che in gergo economico si definisce «hard landing», vale a dire un atterraggio disastroso dopo un lungo volo. La Cina non può più pensare di essere la «fabbrica del mondo», perché il suo costo del lavoro sta salendo e ci sono molti altri Paesi asiatici e non che possono offrire opportunità migliori alla manifattura internazionale.
In questi ultimi anni, soprattutto a partire dal 2008, l’industria cinese ha avuto un accesso al credito troppo facile e spesso opaco. Secondo il Fondo monetario internazionale il cumulo dei prestiti classici e di quelli «non tradizionali» accordati dalle cosiddette «banche ombra», ha raggiunto il 200 per cento del Pil nel 2013. Era del 130% nel 2008. Si tratta di una bolla del debito che potrebbe esplodere, facendo saltare anche la seconda economia del mondo, come è già successo alle potenze occidentali.
Questi dati spiegano le due crisi di liquidità che hanno colpito il sistema finanziario cinese nel 2013. Finora la Banca centrale ha solo mandato segnali di avvertimento, ma il peggio potrebbe ancora venire. E le onde cinesi raggiungerebbero tutte le coste del pianeta globalizzato.
Bisogna essere molto preoccupati? Il partito comunista cinese ha fissato un obiettivo di crescita del Prodotto interno lordo al 7 per cento medio per i prossimi cinque anni, mantenendo la disoccupazione sotto il 5 per cento (oggi è al 4,1%). Il 7,6% che chiude il 2013 in questo senso sembra confortante.
Ma oltre a frenare il credito facile, Xi Jinping e Li Keqiang debbono stare attenti alla bolla immobiliare, visto che gli indicatori sui prezzi delle case sono gli stessi, o anche più allarmanti, di quelli che precedettero l’esplosione del mercato americano nel 2008. I prezzi delle abitazioni nelle grandi città cinesi sono saliti del 113% dal 2004 al 2012; quelli Usa erano aumentati dell’84% tra 2001 e 2006. E forse il dato cinese va anche ritoccato in alto, perché il 113% ingloba le case vecchie: se si considerano solo gli appartamenti nuovi l’incremento raggiunge il 250%. Negli ultimi mesi si sono susseguiti interventi per cercare di calmierare il mercato (sin qui senza buoni risultati).
Xi e Li non negano le difficoltà. Ma sono convinti di avere un’arma totale nel loro piano di sostegno dell’economia: l’urbanizzazione. Entro il 2020/2030 vogliono portare a vivere in città altri 400 milioni di cinesi. Un piano che lancerebbe i consumi interni, arricchirebbe i ranghi della classe media e, se riuscisse, aiuterebbe le esportazioni dal resto del mondo. C’è solo da sperare che a Pechino non sbaglino i conti.


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