Perché servono le rappresentanze L’egoismo sociale non è una risposta

by Sergio Segio | 27 Dicembre 2013 17:14

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Anche sul piano politico la tendenza è evidente (basta pensare all’accanimento sull’abolizione delle Province o sulla decomposizione dei partiti) ma è sul piano sociale che si concentra in queste settimane l’attacco: il sindacato è un fattore di irrigidimento e conservazione, la Confindustria è in crisi di incidenza e di lucidità su ogni politica di rigore e sviluppo; Rete imprese Italia non corrisponde alle speranze di quando nacque, tre anni fa; le associazioni professionali sono luoghi di bieco e centrale corporativismo; il cosiddetto terzo settore è inquinato da professionismo camuffato.
Tutti questi soggetti sembrano destinati alla rottamazione, a livello nazionale e ancor più a livello locale, visto che le loro strutture periferiche non riescono neppure a fidelizzare i propri iscritti. Hanno fatto il loro tempo, e solo qualche nostalgico ama ricordare che buona parte dello sviluppo dei decenni passati e del fronteggiamento della crisi più recente è dovuto alla responsabilità di coesione sociale espressa proprio dalle citate rottamande sedi di rappresentanza.
Devo confessare che questa voglia di lacerare il tessuto intermedio della nostra società non mi convince e non mi piace, anche se riconosco che per molte delle rappresentanze stanno operando tentazioni suicide (l’essersi intruppate nella drammatizzazione enfatica della crisi da un lato e lo slittamento crescente verso la rappresentanza e la politica dall’altro). Non mi convince perché il cecchinaggio continuato di questo periodo porta in primo luogo alla vittoria della rappresentazione sulla rappresentanza: fa spettacolo l’inquadratura televisiva di un precario disperato o di un «forcone» furibondo, ma tutto resta senza alcuna conseguenza reale, neppure di protesta organizzata; e porta in secondo luogo ad aumentare a dismisura la solitudine di tutti i soggetti sociali (cittadini, imprenditori, lavoratori che siano) con una conseguente grande poltiglia antropologica; e porta infine tale solitudine individuale e tale poltiglia collettiva alla disperata ricerca di una personalizzata e verticistica leadership in cui riconoscersi. Capisco che a qualche leader la cosa piaccia, ma non serve alla società; esprimiamo spesso il timore che l’aumento del disagio e delle diseguaglianze sociali possano mettere in pericolo l’equilibrio democratico del Paese; ma io sono convinto che il pericolo maggiore lo corriamo se lasciamo andare per proprio conto il disagio e le diseguaglianze senza garantirsi filtri e mediazioni intermedie.
Spappolare tali filtri e tali mediazioni è quindi operazione che non mi convince; ma è anche operazione che non mi piace, per le modalità con cui si tende a procedere. Ci sento un sapore di prepotenza dell’opinione (lo abbiamo visto specie nel caso delle Province) che non tiene conto dei processi reali in corso: per cui nessuno ci spiega perché si diano legnate su legnate sull’associazionismo datoriale, l’unica sede in cui si può coltivare propensione imprenditoriale interna, quando si vuole incentivare gli investimenti esteri in Italia; nessuno si sofferma di fronte ai faticosi processi di ristrutturazione e crescita delle nuove rappresentanze (prima fra tutte Rete imprese Italia) che pur stanno fronteggiando — con successo — la moltiplicazione egoistica degli interessi; nessuno ci sa spiegare perché le associazioni professionali debbano cedere il passo a una disordinata molecolarità di iniziative personali senza alcun controllo di merito e, talvolta, di deontologia. Tutto è da decostruire, con un gusto distruttivo che si appaga di se stesso, spesso senza alcuna apertura alla discussione, al confronto per una pur necessaria rivisitazione del nostro spazio intermedio.

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