Pussy Riot libere, la sfida a Putin «È solo l’inizio, pronte a lottare»
«Che ve ne pare del tempo in Siberia?». Camicia a scacchi, piumino leggero e calze velate, Nadia lascia l’ospedale della colonia penale di Krasnoyarsk salutando i fotografi con il segno della vittoria. «Siamo solo all’inizio, allacciate le cinture». Fuori, meno tredici gradi. Tremila chilometri a nord-ovest, all’uscita dal carcere di Nizhny Novgorod, Maria accende una sigaretta prima di salire sul treno della sera per Mosca: «Canteremo la nostra canzone fino in fondo. Ormai nulla mi spaventa». Pussy Riot libere. Dopo oltre un anno di lavori forzati le ragazze che sfidarono Vladimir Putin con una preghiera punk nella cattedrale del Cristo Salvatore tornano a casa e promettono di riprendere la lotta. «Se avessi potuto scegliere — dice Maria — sarei rimasta in prigione».
Non ringraziano per l’amnistia, annunciano un rinnovato impegno in difesa dei diritti umani e respingono la misericordia a orologeria che le ha scarcerate pochi giorni dopo l’ex oligarca Mikhail Khodorkovskij e a meno di due mesi dall’Olimpiade invernale che si aprirà il prossimo 7 febbraio a Sochi. «Una farsa, un’operazione mediatica» dice la 25enne Maria Alyokhina, volto angelico e lunghi capelli castani, studentessa di giornalismo e mamma single di un bimbo di sei anni. Scriveva poesie e lavorava in un istituto psichiatrico infantile prima di essere arrestata con l’accusa di teppismo e odio religioso nel marzo 2012. «Santa Vergine, liberaci da Putin» aveva cantato con le compagne in calzamaglia e passamontagna fluo, una protesta contro l’autoritarismo del Cremlino e l’intreccio d’interessi tra potere politico e chiesa ortodossa che era stata condannata da ampi settori dell’opinione pubblica. «Soffro ogni volta che mi accusano di oltraggio alla religione» dice oggi Maria.
A una «Russia senza Putin» ha dedicato ieri le sue prime parole l’indomita Nadezhda Tolokonnikova, 24 anni, studentessa di filosofia e madre di una bambina di cinque anni: a novembre era stata trasferita in Siberia dopo le proteste per le disumane condizioni di detenzione nei campi di lavoro della Mordovia. «Ho conosciuto la macchina dall’interno — dice —, dobbiamo trasformare il sistema penale per cambiare il Paese. In uno Stato totalitario il confine tra l’essere liberi e il non esserlo è sottile». Echi di Novecento europeo, della resistenza alle strategie repressive svelate da intellettuali come Aleksandr Solzenitsin e Czeslaw Milosz, la Russia del XXI secolo è anche arcipelago Gulag e menti prigioniere.
E’ stata una dimostrazione di sicurezza da parte del presidente Vladimir Putin, che dopo aver assistito a un’avanzata senza precedenti dell’opposizione in piazza all’indomani della sua rielezione nel 2012, chiude il 2013 con una serie di prove di forza sul fronte interno e sulla scena internazionale: manovratore in Ucraina, conciliatore sulla Siria, mediatore per l’Iran, Zar Putin persegue spedito il suo progetto neoimperialista. Ci sono ragioni d’immagine in vista dei Giochi invernali e calcoli economici dietro la grazia a Khodorkovskij e l’amnistia della quale beneficeranno anche gli ecologisti di Greenpeace arrestati dopo il blitz nell’Artico dello scorso settembre (tra loro l’italiano Cristian D’Alessandro, atteso a casa per Capodanno): un segnale agli investitori scoraggiati dall’opacità del sistema giudiziario. Dai provvedimenti di clemenza resta escluso oltre il 90 per cento della popolazione carceraria. Nadia e Maria avrebbero terminato di scontare la pena il prossimo marzo. Il patriarcato ortodosso che giudicò blasfema la loro protesta apre al dialogo. «Queste ragazze non sono perse per il regno dei cieli. Dio ama anche loro — dice il responsabile del dipartimento per i rapporti con la società — ma aspetta un pentimento». E Nadia, che ha appena invitato l’Occidente a boicottare Sochi, non si sottrae: «Se vogliono parlare con me, va bene. Non sono offesa».
Maria Serena Natale
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