Si allontana ancora l’età del ritiro per le donne

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La pensione di vecchiaia delle donne si allontana sempre di più. L’innalzamento del limite di età è iniziato nel 1993 con la riforma Amato che ha portato la soglia anagrafica, sebbene gradualmente, da 55 a 60 anni. A partire dal 2012 è cambiato tutto. La legge Monti-Fornero ha infatti dato un deciso colpo di acceleratore alla equiparazione con gli uomini, già peraltro decisa dal precedente governo Berlusconi, che nell’estate 2011 aveva previsto un percorso che doveva iniziare nel 2014 per raggiungere il traguardo nel 2026. Ma non è stato così. Dal primo gennaio 2012, infatti, l’età delle donne è salita di colpo a 62 anni — soglia alla quale già nel 2013 sono stati aggiunti 3 mesi (per via dell’adeguamento alle cosiddette speranze di vita) — e sarà ulteriormente elevata a 63 anni e 9 mesi nel 2014. Per le lavoratrici autonome (commercianti, artigiane e coltivatrici dirette), invece, lo scalone del 2012 è stato di 3 anni e 6 mesi (l’età è passata da 60 a 63 anni e mezzo). Limite che salirà a 64 e 9 mesi nel 2014. Più difficile infine anticipare la vecchiaia, per entrambi i sessi. Chi non ha ancora l’età, l’anno prossimo dovrà infatti accumulare almeno 42 anni e 6 mesi di contributi (41 e 6 mesi le donne).
Un’ancora di salvezza, a caro prezzo, è prevista per le sole donne. Se scelgono di andare in pensione con le vecchie regole — ossia a 57 anni di età con 35 di contributi (58 anni se lavoratrici autonome) — potranno continuare a farlo, in via eccezionale sino al 2015, scegliendo però un trattamento calcolato interamente con il sistema contributivo. Questo criterio, riferito alla contribuzione accumulata nell’arco della intera vita lavorativa, è sicuramente meno vantaggioso del sistema «retributivo», riferito agli stipendi degli ultimi anni, con una perdita in termini di pensione stimato in misura pari a circa il 25-30%. L’anno prossimo — considerando l’aumento dell’età di 3 mesi (speranza di vita) e la cervellotica interpretazione della legge da parte del Ministero, secondo cui il termine del 31 dicembre 2015 contiene anche il periodo di attesa per l’apertura della finestra di 12 mesi (18 le lavoratrici autonome) — le donne dipendenti, per ottenere la pensione contributiva, oltre ai 35 anni di contribuzione, devono compiere i 57 anni di età entro il 31 agosto 2014.
I persistenti dislivelli retributivi fra uomini e donne, che ancor oggi caratterizzano il lavoro femminile, si riflettono negativamente sui trattamenti pensionistici, in via tendenziale più bassi per le donne rispetto agli uomini. Le riforme dei regimi di pensionamento, ed è l’Unione europea a ricordarcelo, devono essere inoltre associate a politiche attive del mercato del lavoro, ad azioni di istruzione e di formazione continua, a sistemi di sicurezza sociale e di assistenza sanitaria, nonché a un miglioramento delle condizioni di benessere nel lavoro. È noto, poi, che le donne sono fortemente impegnate nel lavoro di cura (insegnamento, sanità, anziani, bambini) e, comunque, nei lavori ad alto contenuto relazionale, sia per il mercato, sia in ambito familiare. Si tratta di lavori fondamentali per la nostra esistenza che sottopongono ad alti livelli di affaticamento chi li svolge (più donne che uomini) e che, proprio per questo, avrebbero meritato, ad esempio, di essere ricompresi nella disciplina in materia di «lavoro usurante». Invece, gli adeguamenti per il lavoro usurante previsti dalla riforma Fornero solo attività tradizionalmente maschili: lavori nelle cave ed in galleria, nel vetro, alla catena di montaggio, alla conduzione di autobus e pullman turistici.
Per la pensione rosa non c’è proprio pace. A riaprire la questione è la Commissione europea, recentemente intervenuta sulla differenza di genere per quanto riguarda il sistema di contribuzione per andare in pensione. La Commissione ha infatti deciso di aprire una procedura d’infrazione contro l’Italia a causa dell’attuale normativa che fissa una differenza tra uomini e donne negli anni di contributi necessari per ottenere il pensionamento anticipato (41 e 5 mesi per le donne e 42 e 5 mesi per gli uomini), normativa che andrebbe contro i regolamenti Ue che stabiliscono la parità di trattamento tra i due sessi. Una sanzione che non dovrebbe comunque coglierci impreparati: anche nel recente passato — per l’esattezza nel 2010 — la Commissione Ue aveva messo sotto accusa il nostro Paese, già condannato sul tema dalla Corte di Giustizia Ue nel 2008, chiedendo un’immediata equiparazione dell’età pensionabile tra uomini e donne nell’ambito della Pubblica amministrazione. All’epoca la questione fu risolta attraverso la contestata riforma che innalzò anche per le donne, a partire dal 2012, l’età pensionabile a 65 anni.


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