by Sergio Segio | 22 Dicembre 2013 9:25
E invece, segretario?
«Invece è una legge di “continuità”, che non determina un cambiamento di fase perché è la sommatoria di tante piccole cose, molte non particolarmente eleganti, senza visione, senza strategia. Sostenendo che siamo alla vigilia di una ripresa, che francamente non vediamo, questo governo non introduce alcun elemento di equità in un Paese in cui il reddito da lavoro e da pensioni è sceso e la restituzione fiscale è marginale rispetto all’insieme del provvedimenti presi».
C’è un fondo per il taglio del cuneo e il viceministro dell’Economia, Stefano Fassina dice che per la prima volta le maggiori risorse che vi affluiranno non dovranno essere strutturali.
«Non vedo niente di certo in questo fondo che doveva essere l’avvio di un percorso automatico di finanziamento. Il sindacato, insieme alle imprese, lo aveva individuato come il minimo indispensabile per poter parlare di inversione di rotta. Ma i condizionamenti sono stati tali che qualsiasi spinta innovativa è subordinata ad altre necessità».
A cosa si riferisce?
«Prima di tutto all’Imu. Se non si fosse scelto di restituirla e se invece ci si fosse occupati della grandissima ingiustizia per cui un lavoratore dipendente ha un’aliquota di tassazione superiore a quella delle rendite finanziarie, allora si sarebbero compiute scelte che andavano nella giusta direzione di dare valore al lavoro. E non mi vengano a dire che non ci sono i soldi: si è scelto di agire solo su una parte del reddito del Paese».
La nuova Imu, cioè in realtà la tassa sui servizi chiamata Tasi, sta ancora cambiando: aumentano le detrazioni mentre l’aliquota sulla prima casa potrebbe salire dal 2,5 per mille al 3,5. Vicina al 4 per mille della vecchia Imu. Le sembra più equa così la tassazione?
«A me pare che produca nuovi problemi di comprensione prima di tutto. E poi continua a non essere equa perché non è chiaro cosa succeda rispetto agli affittuari che sono stati coinvolti. In più c’è un errore di fondo, di principio: è il concetto di ”prima casa” a non essere equo. Se si tratta dell‘unica casa di un pensionato è un conto, altro se si tratta della prima di molti altri immobili».
Secondo lei il governo ha disatteso le promesse fatte al proprio insediamento? E perché?
«Il governo era nato promettendo “una stagione di crescita”. Evidentemente si sono persi nella fumosità degli equilibri politici e non si sono chiariti su come operare. Rilevo che anche questo governo continua a non pensare che bisogna ripartire dal lavoro, che occorre lavorare sulla domanda interna. Non voleva agire sul terreno fiscale? Allora si doveva andare su quello degli investimenti che creano l’occupazione».
Nel «piano del lavoro» della Cgil si suggerisce un ritorno dell’intervento pubblico in economia. Non le pare anacronistico?
«Intanto il caso Telecom sta lì a spiegarci che le privatizzazioni non portano miglioramenti nei settori in cui sono state fatte, anzi… Devo dire che questa nuova stagione di privatizzazioni ci preoccupa perché mette a rischio imprese fondamentali per il Paese riducendone le risorse. Quando parliamo di ritorno del pubblico pensiamo a un piano che diriga, che convogli le risorse sulle migliori forme d’investimento, a partire dalla ricerca».
Lei dice che l’esecutivo non ha tra le priorità il lavoro, ma Letta ha molto spinto perché in Europa si finanziasse lo «youth guarantee».
«E noi stiamo collaborando per attuarlo ma quel piano riguarda la formazione, l’accompagnamento a lavoro. E’ importante soprattutto in un Paese dove ci sono molti “neet”. Ma prima il lavoro bisogna crearlo: per questo abbiamo fatto la nostra battaglia sul taglio del cuneo fiscale. Poi però quando vediamo che il Fondo sarà costituito da risorse della lotta all’evasione fiscale e non ci sono norme che vadano in quella direzione, allora chiunque sarebbe sospettoso. Non va bene».
Che norme avrebbe voluto?
«Passi avanti sulla tracciabilità del denaro, per cominciare».
Si torna a parlare di regole del lavoro. L’ex ministro Fornero in una lettera a “la Stampa” ha sospeso il giudizio circa l’effetto della sua riforma sull’articolo 18. Lei che ne pensa?
«La modifica apportata dal governo Monti è molto parziale rispetto all’obiettivo iniziale e ha avuto effetti non omogenei sul territorio nazionale per i casi che noi abbiamo potuto verificare. Ma poi la crisi ha reso evidente l’inutilità di quelle norme perché oggi la vera urgenza sono le imprese che chiudono e non certo l’articolo 18. Abbiamo un milione di disoccupati in più negli ultimi mesi ma nel nostro dibattito ci si ostina sul paradosso ideologico e ottocentesco di ragionare su come ridurre gli occupati. Continuando a ignorare ad esempio che le imprese più internazionalizzate, quelle che affrontano meglio la crisi, sono anche quelle che non agitano l’articolo 18, fanno contrattazione, non hanno precarietà. Per non dire che in Italia ci sono ancora problemi di schiavismo e caporalato. Altro che far saltare le regole».
Il neosegretario del Pd, Matteo Renzi, ha detto che non vuole parlare di articolo 18. Ci crede?
«Ho apprezzato la sua dichiarazione. Credo che abbia colto che parlare di lavoro è tutt’altra cosa».
Dialogherà con lui?
«Il dialogo non solo è necessario, ma se c’è chiarezza nelle posizioni e rispetto reciproco può essere costruttivo».
Antonella Baccaro
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