PERCHÉ LA WEB TAX NON MINACCIA LA RETE

by Sergio Segio | 17 Dicembre 2013 6:55

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Piuttosto, la norma introdotta nella legge di Stabilità tende a combattere l’evasione via Internet, per difendere la concorrenza sul mercato interno e contribuire magari a ridurre il cuneo fiscale sul lavoro. Non a caso è stata denominata più correttamente “Google tax”: proprio perché colpisce i giganti del web, tra cui il più potente motore di ricerca del mondo, insieme ad altri come Facebook, Apple e Amazon. E non a caso ha suscitato la reazione della lobby di interessi alla quale questi colossi appartengono, come l’American Chamber of Commerce in Italy che notoriamente non è un’associazione filantropica o di beneficenza.
Il fatto è che Google e i suoi “fratelli” realizzano i loro ingenti fatturati nel nostro Paese o altrove e poi pagano le tasse dove vogliono o dove più loro conviene, di fatto sottraendo gettito al fisco nazionale. E parliamo di un’elusione legalizzata, in funzione della quale i ricavi si contano in miliardi di euro e invece le imposte in pochi milioni. Una forma di dumping tecnologico, insomma, che danneggia il commercio, la produzione e l’occupazione Made in Italy: tanto più che i prodotti acquistati su Internet, come anche i servizi o le campagne pubblicitarie, vengono pagati con redditi realizzati sul nostro territorio.
Nel provvedimento contestato, analogo a proposte già presentate in altri Paesi europei, si prevede perciò l’obbligo di acquistare beni e servizi online soltanto da soggetti titolari di partita Iva italiana. Trattandosi di operazioni che si realizzano con la “moneta elettronica”, è possibile individuare con certezza il beneficiario effettivo del pagamento ed esigere di conseguenza il versamento corrispettivo delle tasse. Non c’è alcuna ragione, del resto, per cui l’esercente di un negozio fisico sul territorio italiano ne debba pagare più di chi gestisce un negozio virtuale attraverso un sito con sede legale all’estero: per esempio, in Irlanda o in Lussemburgo, dove l’imposizione è largamente inferiore.
Questa elementare esigenza di equità è ancor più avvertita sul mercato della pubblicità, già fortemente condizionato nel nostro Paese dalla concentrazione televisiva che danneggia in particolare la stampa e i nuovi mezzi di comunicazione. Il search advertising,
cioè l’acquisto di spazi dei link sponsorizzati che appaiono nelle pagine dei “Risultati” sui motori di ricerca, deve corrispondere agli stessi parametri fiscali che regolano la raccolta dei mezzi tradizionali sul territorio nazionale. Altrimenti, anche in questo modo surrettizio si rischia di compromettere il pluralismo dell’informazione e la libera concorrenza.
Nessun Trattato europeo o accordo sul commercio internazionale può trasformare dunque l’Italia in un paradiso fiscale per i “signori del web”. La libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali, garantita all’interno dell’Unione, non contempla e non autorizza il “contrabbando virtuale” dell’e-commerce a danno degli operatori nazionali. Se è vero che il cyber-spazio non ha confini, ciò non implica tuttavia un regime di extra-territorialità tale da consentire l’evasione generalizzata. Una Rete senza regole, giuridiche o economiche, è destinata prima o poi a degenerare nell’anarchia.

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