Un patto di 15 mesi con Letta E Renzi sfida il «buffone» Grillo

by Sergio Segio | 16 Dicembre 2013 7:08

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MILANO — Arriva trascinando il suo trolley, come un delegato qualunque. Fuori ci sono le torri della Milano che verrà e dentro una folla entusiasta, un partito che fino a un anno fa lo considerava un corpo estraneo e che ora lo acclama come un salvatore. Matteo Renzi è il nuovo re del Pd, incoronato dal voto del «popolo», l’ultima speranza dopo una serie di fallimenti, come si sente ripetere nel salone del centro congressi della Fiera. L’uomo della Leopolda ora può dettare l’agenda al governo Letta, di cui è azionista di (larga) maggioranza, imporre al premier un patto con tanto di date e scadenze e insieme sfidare a viso aperto il più insidioso degli sfidanti, Beppe Grillo e la sua «antipolitica».
L’accordo sui tempi
Quindici mesi per le riforme, perché «se il governo avrà risultati balbettanti le responsabilità ricadranno tutte sul Pd». Un patto a viso aperto, alla tedesca, voce per voce. Da qui al semestre europeo, da qui all’Expo. Il premier — tenuta casual, maglione blu e sneakers ai piedi — parla prima di Matteo e al nuovo segretario rivolge quasi una supplica: tra me e te basta retroscena. Tutto deve avvenire alla luce del sole. «L’Italia ce la farà se il Pd ce la farà, uniti non ci batte nessuno». Letta raccoglierà però l’applauso più convinto dai mille e più delegati quando attaccherà i Forconi, i toni antisemiti e le infiltrazioni di Casa Pound nella protesta.
Grillo e la «sorpresa»
Annunciata nei contenuti, ma non nei toni e nelle forme, ecco la sorpresa. La sfida a Grillo è a testa alta e arriva da uno che ha i titoli per lanciarla, fa capire il segretario, uno che ha rottamato un’intera classe dirigente. Però attenzione: lavoro, cultura, diritti. Questi sono i temi fondamentali, questa è la visione per il futuro. In agenda però non possono non finire anche i «segnali» e gli «esempi» da offrire. E devono finirci subito, «altrimenti si perde la faccia». E allora: legge elettorale per arrivare a un sistema «nel quale chi vince vince davvero», riorganizzazione istituzionale per trasformare il Senato in una camera delle autonomie senza (nuovi) eletti né indennità (aggiuntive); tagli ai costi della politica perché, per esempio, un consigliere regionale non guadagni più del sindaco del Comune capoluogo. «Noi siamo pronti a rinunciare alla tranche di finanziamenti pubblici», urla Matteo. «Quaranta milioni di euro. Ma tu Beppe firma subito le nostre proposte o sei solo un chiacchierone. Se non ci stai, l’espressione buffone vale per te».
Lavoro, ius soli e unioni civili
Visione per il futuro e agenda di governo. La rivoluzione di Renzi riparte dal lavoro. È finita l’era ideologica, scandisce, troppo tempo s’è perso a parlare di articolo 18. Entro gennaio deve invece arrivare una legge per semplificare le regole del mercato, ma anche per immaginare(per tutti, non solo per i «garantiti») un meccanismo di «sussidio universale». Nell’agenda del segretario si leggono, scritti in maiuscolo, tutti i temi classici della sinistra. La cultura, l’istruzione, la scuola («Resto ribelle», annuncia richiamandosi ai Negrita). In più, l’uscita delle banche dalla stampa. E la famiglia. Uno scandalo — spiega — che il fondo per le famiglie sia inferiore a quello riservato all’editoria (la replica del segretario della Fnsi, Franco Siddi: «Quei soldi non sono regalie ma ammortizzatori sociali»). E ancora: la riforma della Bossi-Fini per introdurre lo ius soli («almeno alla fine di un ciclo scolastico») e le civil partnership «che faranno parte del nostro programma piaccia o meno a Giovanardi» (la risposta in sala è un’ovazione da stadio).
I consensi e la frontiera
Un Pd di frontiera non da museo, predica il neosegretario. Gianni Cuperlo, che ha appena detto di sì all’offerta di presidenza dell’assemblea, accetta la suggestione e rilancia: «Caro Matteo, per me la sinistra non è un museo. La sinistra è arrivare alla frontiera tutti insieme senza che nessuno rimanga indietro». Nel coro quasi unanime di consensi, da segnalare la tiepida apertura di Massimo D’Alema(«Dopo gli scontri congressuali un buon discorso») e le preoccupazioni di Rosy Bindi («Ha posto temi difficili per la tenuta di questa maggioranza»). Più aspro Pippo Civati, che confessa di non aver apprezzato nemmeno la sfida «da western» lanciata a Grillo: «Io faccio fatica a fare il papà e il parlamentare, mi chiedo come farà lui a fare il segretario e il sindaco».
Dagli Usa al Mediterraneo
Un’ora e dieci di discorso, (oltre alle conclusioni svolte però dal tavolo della presidenza). Una relazione infarcita di immagini, citazioni, esempi. Dal mito della Silicon Valley e di Steve Jobs (per sferrare l’attacco alla web tax) all’annuncio di un’iniziativa col sindaco di Lampedusa sui temi dell’accoglienza del mare nostrum «che non è come dice Erri De Luca il buttafuori dei migranti». Una preghiera, infine: «Basta dire “noi non faremo la fine della Grecia”. L’Italia, della futura Europa, dovrà essere la guida», altroché. «Sarà un anno scoppiettante», promette prima di salutare tutti e andarsene.
Andrea Senesi

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