Camusso e la protesta efficace: lo sciopero generale? «Non basta più per tutti»
L’ultimo in ordine di tempo è datato novembre 2013: Cgil insieme con Cisl e Uil contro la legge di Stabilità del governo Letta. D’ora in poi, però, rischiano di essere poche le nuove foto da aggiungere all’album delle proteste generali del sindacato rosso.
A manifestare dubbi sull’efficacia dello sciopero generale in tempi di crisi oggi è la stessa leader della Cgil, Susanna Camusso. «Nell’attuale quadro economico e sociale non è più sufficiente evocare lo sciopero generale come unica modalità in cui si determina il conflitto sul tema del lavoro», ha detto ieri Camusso, in puro slang sindacalese. Ma la sostanza non cambia.
La segretaria generale della Cgil ha espresso il suo pensiero durante un convegno organizzato a Bologna dalla Fiom (dalla fondazione Claudio Sabbatini, per la precisione). E anche questo non è un dettaglio, visto il confronto interno tra Fiom e Cgil.
«In una situazione difficile come quella che stiamo vivendo — ha argomentato ancora Camusso — bisogna fare i conti con la difficoltà economica dei lavoratori, con le tante differenze tra chi ha lavoro, chi è in cassa integrazione e chi è disoccupato. L’idea di una forma di protesta che riguarda solo una parte del mondo del lavoro non è più sufficiente».
Tradotto, i punti deboli dello sciopero generale in tempi di crisi sono soprattutto tre. Uno: per i disoccupati l’astensione dal lavoro dei privilegiati che un’occupazione ce l’hanno può sembrare una beffa. Due: non è questo il momento di mettere in difficoltà le aziende e rendere ancora più precari posti che di fatto sono già traballanti per colpa della crisi. Tre: anche chi è assunto spesso ha meno soldi in tasca perché gli straordinari e i bonus sono diventati una rarità, e così una giornata in meno a fine mese rischia di pesare troppo sui bilanci delle famiglie.
Che fare allora? Nel sindacato rosso ci si interroga. «La Cgil di scioperi generali ne ha fatti molti, bisogna verificare la possibilità di attuare forme di protesta altrettanto efficaci e non esclusive, che abbiano la capacità di unificare il mondo del lavoro», indica la via Camusso.
Come dire: dobbiamo trovare il modo di rappresentare anche chi il lavoro non ce l’ha. Un’esigenza che si fa sempre più pressante. La Cgia di Mestre, associazione che rappresenta il mondo dell’artigianato, ha calcolato che dall’inizio della crisi a oggi (quindi dal 2008) siano scomparse 415 mila partite Iva. Il limite tra lavoro dipendente e autonomo è sempre più sfumato. E le proteste selvagge dei Forconi o dei tranvieri a Genova e a Firenze sfidano anche il sindacato rosso. Per non parlare dei messaggi che arrivano dal Pd di Matteo Renzi, che in materia di lavoro non ha nessuna intenzione di chiedere «permesso» alla Cgil.
D’altra parte il primo sciopero generale nazionale in Italia è datato settembre 1904. Da allora sono passati più di cent’anni. Durante l’ultima protesta indetta a metà novembre da Cgil, Cisl e Uil qualcosa ha cominciato a scricchiolare. Il segretario generale della Cisl della Lombardia, Gigi Petteni, prima di fare sciopero ha voluto consultare i suoi dirigenti. Poco convinto? «Un conto sono gli scioperi per i contratti, un altro quelli generali in cui a volte ti trovi a bloccare aziende in cui sindacato e proprietà stanno collaborando», risponde Petteni. Che aggiunge: «In Cisl si discute molto di questi temi, anche se non sempre con una capacità di sintesi condivisa». D’altra parte anche la Cisl siciliana ha organizzato proteste di sabato per evitare di bloccare la produzione.
Nei prossimi giorni gli appuntamenti in cui il sindacato confederale si dovrà misurare sul tema dello sciopero non mancheranno. Primo fra tutti: il prossimo 16 dicembre con l’astensione dal lavoro degli autoferrotranvieri, da sei anni senza contratto. Poche settimane fa il sindacato autonomo ha rubato la scena a quello confederale con proteste selvagge a Genova e a Firenze. Il rischio che il copione si ripeta è tutt’altro che remoto.
Rita Querzé
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UOMINI E NO
Non è un problema tecnico. Non c’era bisogno di particolari competenze ingegneristiche o finanziarie per capire, fin dal 21 aprile di due anni fa, quando al Lingotto fu presentato in pompa magna, che il piano «Fabbrica Italia» stava sulle nuvole. Anche un bambino si sarebbe reso conto che quella produzione da aumentare dalle 650.000 auto del 2009 al milione e 400mila del 2014, quel milione di veicoli destinati all’esportazione di cui «300.000 per gli Stati Uniti» (sic!), quel raddoppio o poco meno delle unità commerciali leggere (dalle 150 alle 250mila) in meno di quattro anni, erano numeri sparati a caso. Così come quei 20 miliardi di euro d’investimenti in Italia (i due terzi dell’intero volume mondiale del Gruppo Fiat!), senza uno straccio d’indicazione sulla loro provenienza, senza un piano finanziario serio e trasparente, erano un gigantesco buio gettato sul tavolo verde.