by Sergio Segio | 11 Dicembre 2013 8:23
JOHANNESBURG — Il funerale di Mandela senza Mandela: per Barack Obama che arriva in ritardo dall’America è «un gigante della storia». Per Lindi Molefe che si è alzata alle 5 in una casupola di Soweto «è uno di noi». Il Segretario Generale dell’Onu lo paragona a «un baobab le cui radici attraversano il pianeta», mentre per il tecnico telefonico Paul Ontong è un buon segno che piova a dirotto: «Nella nostra cultura un funerale bagnato è il segno che lo spirito è accolto bene nell’aldilà».
E ci mancherebbe. Le spoglie del gigante rimangono all’ospedale militare di Pretoria (da oggi camera ardente al palazzo presidenziale). Ma sotto le nuvole gelide dell’aldiquà, a Soccer City, nello stadio a forma di zucca (calabash) trasformato per un giorno in Mandela City, Grandi della Terra e anonimi africani celebrano Madiba a 20 anni esatti dal Nobel per la pace. Cancelli aperti alle 6: sono passate le 15 quando l’arcivescovo Desmond Tutu chiude il funerale del secolo con una sgridata-benedizione alla folla troppo rumorosa, un rimbrotto che strappa una risata persino all’impietrita Winnie. A inizio cerimonia l’ex moglie del primo presidente del Sudafrica democratico scomparso giovedì a 95 anni ha abbracciato la vedova in carica Graça Machel, la stessa che una volta chiamava «concubina». La numerosa famiglia trova posto sotto una tenda di fianco al palco degli oratori protetto da un vetro antiproiettile. L’esercito dei 100 capi di Stato e di governo è seduto nelle tribune d’onore dello stadio. Sugli spalti non c’è il tutto esaurito di una finale mondiale: il diluvio e le difficoltà nei trasporti hanno riempito 60 mila posti sui 100 mila disponibili. I cento e passa leader annunciati sono invece al completo, una distesa di abiti scuri: una quindicina dall’Africa, molti dall’Europa (compreso Enrico Letta). Per il mondo dell’impegno pop ecco Bono e Peter Gabriel, Oprah Winfrey e Naomi Campbell, mentre Hollywood è rappresentata dalla star locale Charlize Theron.
Abiti scuri e tacchi alti nelle tribune vip (in seconda fila i «pensionati» come Bush, Blair e Sarkozy), coperte per il freddo e hot-dogs qui nei «popolari». Folla colorata e cantante, tamburi e bandiere. Famiglie (non molte) e gruppi di ragazzi, veterani anti-apartheid e nati-liberi. Di là i Clinton al completo, di qua i Padayachee: una volta discriminati come «coloured», adesso mangiano popcorn accanto a una giovane bianca e si stringono furtivi la mano quando Obama cita Gandhi. E’ il «Madiba Mix», l’arcobaleno incompleto di una società classista dove il reddito dei neri è triplicato in 10 anni pur aumentando le disuguaglianze tra ricchi e poveri. Ma oggi nessuno vuol fare le pulci all’eredità del baobab. Tra gli oratori la metà fa addormentare (compreso il veterano di Robben Island), i tre bisnipoti chiamati a parlare hanno poco spazio o troppa emozione, altri leader si perdono nella traduzione (il vice presidente cinese, la presidenta brasiliana). I più applauditi sono l’immaginifico Ban e soprattutto l’appassionato Barack. «Ci voleva un uomo come Madiba — dice il presidente americano — per liberare non solo gli oppressi ma anche gli oppressori». Obama racconta che cominciò a fare politica interessandosi alla storia di Mandela. Elogia la sua «imperfetta santità» («santo è qualcuno che continua a provarci» scrisse Nelson a Winnie dal carcere nel 1975), mette in discussione se stesso e i colleghi quando dice che il cammino verso l’uguaglianza e la giustizia «non è finito», bastona i «troppi leader» che abbracciano a parole il verbo di Mandela e poi «non tollerano il dissenso a casa propria». Cita «Invictus», la poesia preferita da capitan Nelson. «Mi mancherà molto — conclude Obama — ma so che continuerà a farmi venire voglia di essere una persona migliore».
Immediate migliorie sul fronte diplomatico: Obama stringe la mano al nemico caraibico, il presidente cubano Raúl Castro, che dal palco saluta il compagno Mandela «profeta di riconciliazione». Anche se poi Barack perde punti sul fronte matrimoniale sorridendo un po’ troppo alla prima ministra danese, dando le spalle a Michelle che non sembra gradire. Foto molto twittata, sketch di alleggerimento in una giornata grigia e intensa. Il meno contento dev’essere il presidente sudafricano Jacob Zuma, il «padrone di casa» su cui aleggia il solito scandalo (soldi pubblici per casa privata): quando veniva citato o appariva sullo schermo, dai «popolari» partivano fischi e boati. Una figuraccia. L’anno prossimo ci sono le elezioni, le prime senza «il gigante». I fischi a Zuma sono un campanello di allarme per il partito Anc da sempre al potere, un’altra piccola sorpresa dalla zucca magica di Mandela City.
Michele Farina
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