Il tabù della riduzione dell’orario di lavoro
Si dirà che una sorte non molto diversa tocca ad altri temi di riforma sociale, per tutti il reddito di cittadinanza. Ma l’osservazione piuttosto che giustificare la coltre di silenzio, la rende ancor più pesante. Perciò andrebbero dedicate le attenzioni che meritano ai tentativi di bucare il muro di silenzio eretto nei confronti dei temi di riforma sociale e a protezione delle politiche di autenticità. Su questo giornale Nicola Cacace ha dedicato al tema un interessante articolo e Pierre Carniti si è impegnato ancora recentemente con un libro prezioso, La risacca. Il lavoro senza lavoro. Claudio Gnesutta ha recentemente riflettuto in termini assai interessanti su un intervento finalizzato alla redistribuzione del lavoro tra occupati e inattivi. Alle ragioni storiche che dovrebbero indurre a considerare la riduzione dell’orario di lavoro come una componente necessaria di una qualsiasi politica di pieno e buon impiego, se ne aggiungono altre di natura congiunturale e più direttamente connesse alla coppia crisi-crescita, coppia che domina la fase e le politiche dei nostri giorni. Se le politiche di austerità, nella crisi, hanno indiscutibilmente aggravato drammaticamente la disoccupazione, la precarietà e la sottrazione del tempo di lavoro alla determinazione e al controllo dei lavoratori interessati, si viene facendo strada ora la convinzione che anche la ripresa che si prevede vedrà, nei paesi europei, una crescita assai modesta e, in ogni caso, nessuna conseguenza significativa sull’occupazione. La tesi secondo la quale bisognerebbe guadagnare la crescita per rispondere al dramma sociale della disoccupazione è già falsificata prima ancora che cominci la ripresa. Del resto, anche analizzando le tendenze di medio periodo si evince che la relazione tra crescita e impiego si è fatta assai controversa. In ogni caso, per restare al tempo presente, non si sfugge all’interrogativo su come si possa creare occupazione in un periodo di sostanziale stagnazione economica. Allora prende forza, direttamente, l’esigenza di rovesciare la relazione tra la crescita e la creazione di impiego e si afferma, oggettivamente, la necessità di mettere mano direttamente a quest’ultima. La distribuzione del tempo di lavoro sarebbe una parte importante di questa operazione economico-sociale, per altro reso possibile dai guadagni di produttività realizzati e realizzabili con l’invenzione e l’applicazione dell’informatica, da un lato, e con la messa al lavoro delle conoscenze diffuse incorporate dalla popolazione lavorativa, anche attraverso le nuove forme di apprendimento non formalizzato. Bisogna, inoltre, tenere conto che nella realtà già avviene una riduzione dell’orario di lavoro medio settimanale, seppure in forma subdola e socialmente penalizzante il lavoro. Secondo l’Ufficio internazionale del lavoro, contro le 35 ore medie della Francia, in Germania la durata setimanale del lavoro è scesa a 30,3 ore per la diffusione enorme dei piccoli lavori, i cosiddetti mini e midijobs, spesso della durata di meno di 10 ore. Dunque ci sono, oltreché ragioni sociali, di giustizia sociale, di eguaglianza, ragioni di fattibilità tecnica della messa all’ordine del giorno della riduzione dell’orario.
Le sue conseguenze sull’occupazione sono facilmente immaginabili, largamente prevedibili e persino quantificabili. Pierre Larrouturon, autorevole economista francese e presidente del collettivo Roosevelt 2012 ha scritto: «In Francia quattrocento aziende sono già passate a quattro gironi utilizzando la legge Robien. Un movimento generale verso la settimana di quattro giorni potrebbe creare 1,6 milioni di posti di lavoro». Non è necessario condividere la previsione, né aderire al modello dei quattro giorni lavorativi a settimana; quel che è necessario è riaprire la grande questione della riduzione dell’orario di lavoro. C’è una tendenza rilevante tra coloro che prospettano la necessità di organizzare la riduzione della durata del lavoro a proporre l’obiettivo delle 32 ore settimanali. Anche questa quantificazione dell’obiettivo è, certo, come altre discutibile. Come lo sarebbe la modalità della sua realizzazione, il mix tra legge e contratto, tra centralità e articolazione, come il diverso peso specifico da attribuire all’ora lavorata a seconda delle caratteristiche del lavoro svolto, dove e quando. È noto che quando il tema della riduzione dell’orario di lavoro è stato d’attualità, quando ha investito la pratica sociale e la politica, esso ha sollevato la riflessione sui temi più generali di organizzazione della società, del rapporto tra produzione e riproduzione sociale, tra economia, lavoro e natura, sul rapporto tra quantità e qualità del lavoro.
La mia generazione politica è stata attraversata dalla temperie promossa dal «lavorare meno, lavorare tutti» e affascinato da una straordinaria ricerca come quella di Andrè Gorz. Si può capire che nel tempo del capitalismo finanziario globale e di questa Europa reale, questi orizzonti possono apparire lontani, sommersi come sono dal vincolo esterno della compatibilità. Ma se non vi si oppone il vincolo interno dei bisogni democratici, a partire da quello del pieno e buon impiego, non c’è alcuna possibilità di uscire dalla crisi attuale drammatica della coesione sociale. La riduzione dell’orario di lavoro è parte di questa contesa.
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