by Sergio Segio | 9 Dicembre 2013 8:13
WOLE Soyinka ha condiviso con Mandela l’impegno politico e la lotta per la libertà. A lui lo scrittore nigeriano ha dedicato il discorso del Nobel, nel 1986, in cui denunciava la segregazione razziale in Sudafrica, e due anni dopo la raccolta di poesie
Mande-la’s Earth and Other Poems.
Ora ricorda la loro amicizia. Qual era il senso del titolo, La terra di Mandela?
«Quand’ero studente, in Nigeria e in Gran Bretagna, consideravo l’Apartheid un affronto a livello razziale e personale. Una intera generazione di intellettuali africani aveva come missione nella vita quella di liberare il Sudafrica. Mandela era l’emblema di questa lotta».
Il verso di una poesia recita: “Che cosa resterà di te, Mandela?”.
«Quando volgevo lo sguardo verso il Sudafrica, vedevo Mandela. Vedevo la sua storia, la sua eroica capacità di resistenza, la sua personalità così forte. Non riuscivo a credere che un solo uomo potesse portare il peso di tanta magnanimità, eppure aveva combattuto e non si era mai pentito. Per me era come Ogun».
Il dio della mitologia yoruba?
«Sì. Nel mondo Orisha gli dei sono metafore dell’esistenza umana. Ogun rappresenta le arti e insieme sentimenti quali la solitudine o la contemplazione. È il dio della giustizia, con il rigore che questa porta con sé. È anche il dio della guerra oltre che della tecnologia, perché ha a che fare col metallo. La sua è una combinazione tra ciò che è pace
e ciò che non lo è. Può avere una faccia vitale, violenta, ma una volta l’anno dimostra rimorso, e dunque è una divinità che restituisce e riequilibra».
Quando incontrò Mandela per la prima volta?
«Poco dopo che era uscito di prigione. Stava facendo un giro del mondo preparandosi a divenire presidente e ad organizzare quella che sarebbe stata la ripresa economica del Sudafrica. Fui invitato ad un pranzo organizzato da Danielle Mitterrand al “Theatre National Populaire”. Standogli vicino ebbi la possibilità di studiarlo attentamente».
Che successe a quella cena?
«Erano in corso le violenze scatenate dal partito nazionalista zulu Inkatha. Gli chiesi il perché di tutto quell’odio — venivano messi dei pneumatici incendiati al collo delle persone — e se avesse incontrato il leader Buthelezi. Guardando gli esponenti dell’Anc, disse che avrebbe seguito le indicazioni del partito, che era contrario. Ma aveva uno sguardo sornione. Poche settimane dopo seppi che lo aveva già visto. Era legato al partito ma vedeva una scorciatoia e agì secondo ciò che gli pareva giusto».
C’è un brano della sua autobiografia che l’ha colpita più di altri?
«È la descrizione della prima colazione di Mandela fuori dal carcere. Gli offrirono uova, bacon e salsiccia. Il suo stesso carceriere urlò: lo volete uccidere?
Per oltre vent’anni aveva mangiato un rancio schifoso e pensava che il suo stomaco non avrebbe retto. Mandela afferrò il vassoio e disse: non mi importa niente se muoio, questo me lo mangio».
In quelle pagine aleggia sopra di lui una sorta di destino. La scelta del sacrificio del carcere è chiara e consapevole.
«Quando ci si imbarca in una impresa tanto rischiosa si sa a che cosa si va incontro. È stato così anche per Ken Saro-Wiwa o Cristopher Kebu. Mandela ha saputo quando bisognava prendere le armi e quando era il momento di dire: adesso bisogna dimenticare i crimini contro di noi, bisogna sedersi, parlare, perché tutti devono confessare cosa hanno fatto. Ha capito che si doveva trovare una via per la verità e la riconciliazione, se si voleva andare avanti».
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