QUEL COMUNISTA CHE USÒ IL POTERE DEL COMPROMESSO

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Ma Ellis, attingendo a testimonianze di ex iscritti al partito e al materiale d’archivio da poco accessibile, sosteneva la tesi che Mandela aderì al partito attorno al 1960. Vera o falsa che sia, questa notizia ha davvero importanza?
La rivelazione di Ellis infiammò alcuni critici e revisionisti, che la considerarono dimostrazione del carattere di fronte stalinista dell’Anc. Probabilmente suscitò un senso di rivalsa tra gli americani che erano stati favorevoli al sostegno del loro governo al regime dell’Apartheid — ferocemente anticomunista — negli anni della Guerra fredda. Di fatto, quella del professor Ellis non è un’apologia del governo dei bianchi: la sua tesi è che l’associazione con i comunisti improntò l’ideologia dell’Anc al punto da esercitare ancora oggi di esso una profonda e infausta influenza. «Oggi l’Anc dichiara di essere alla prima fase di una rivoluzione a due fasi» mi ha scritto Ellis in un’email. «Questa è una teoria che deriva direttamente dal pensiero sovietico». Effettivamente nel programma e nell’atteggiamento del partito sudafricano oggi al governo sono ancora vivi i codici e il gergo comunisti.
Da giornalista mi sono occupato dell’Unione Sovietica dal 1986 al 1991 e del Sudafrica dal 1992 al 1995 e il mio punto di vista, alla luce di queste esperienze, rispetta gli accademici ma ne riconosce anche i limiti. Sia nella Russia di Gorbaciov che nel Sudafrica della transizione mi sono reso conto che i concetti espressi nelle riunioni di partito e codificati nei verbali non sono sempre indicazioni affidabili sulle azioni future o addirittura sulle reali convinzioni della dirigenza del partito. Ma l’adesione di Mandela al Partito comunista non è un dettaglio trascurabile: non giustifica chi gongola nel dare la caccia al rosso e certo non sminuisce il valore eroico del suo esempio. Ma sotto alcuni aspetti ha un peso.
In primo luogo la breve adesione di Mandela al Partito comunista sudafricano e la sua alleanza a lungo termine con comunisti più ferventi sono segno del suo pragmatismo più che della sua posizione ideologica. Mandela fu in fasi diverse un nazionalista nero e un anti-razzista, si dichiarò contrario alla lotta armata e giustificò la violenza, fu una testa calda e diede prova di calma olimpica, fu divoratore di opuscoli marxisti e ammiratore della democrazia occidentale, stretto alleato dei comunisti e, durante la sua presidenza, partner dei potenti capitalisti sudafricani.
L’iniziale collaborazione dell’Anc con i comunisti si configurò come un matrimonio di convenienza per un movimento che aveva ben pochi amici. Il Partito comunista sudafricano e i suoi patroni in Russia e in Cina erano fonte di denaro ed armi per la lotta armata priva di mezzi. L’ideologia comunista indubbiamente si insinuò nell’Anc, ma solo come ingrediente di un cocktail al cento per cento sudafricano composto anche dal nazionalismo africano, dalla consapevolezza nera, dal liberalismo religioso e da altre rabbie, rancori e desideri in fieri.
Quando però si arrivò ai momenti critici, la fazione dei paladini della nazionalizzazione e degli assetati di vendetta fu sconfitta dai fautori del compromesso. Vinsero le tesi utili a portare avanti la causa di un Sudafrica governato da sudafricani. Fu così per Mandela e per il suo successore, Thabo Mbeki. L’attuale presidente, Jacob Zuma, sembra non avere altro ideale che l’auto-arricchimento.
In uno dei processi in cui fu imputato, chiesero a Mandela se fosse comunista. «Se per comunista intendete un iscritto al Partito comunista e una persona che crede nella teoria di Marx, Engels, Lenin e Stalin, e che si conforma rigidamente alla disciplina del partito, non sono diventato comunista», disse. Una risposta al contempo evasiva e precisissima.
Forse l’influsso più importante e duraturo esercitato del Partito comunista sudafricano su Mandela si riscontra nel suo
impegno antirazzista. L’Anc agli esordi ammetteva solo neri. Per un lungo periodo il Partito comunista fu l’unico partner del movimento che includesse bianchi, indiani e meticci.
In terzo luogo l’affiliazione con il Partito comunista ha un peso anche perché contribuisce a spiegare come mai il Sud Africa non abbia compiuto molti passi avanti nel migliorare le condizioni di vita delle classi più basse della popolazione. I numerosi insuccessi collezionati dall’Anc in 19 anni al potere si spiegano col fatto che non ha mai completato il processo di transizione da movimento a partito politico, ancor meno a partito di governo. Il motivo della sua incapacità non è la dottrina stalinista, né una dottrina in sé. È qualcosa di insito nella natura, nella cultura dei movimenti di liberazione: uniti da ciò contro cui si oppongono, tendono avere carattere cospiratorio, a scoraggiare il dissenso, a privilegiare i fini rispetto ai mezzi.
In fin dei conti ovviamente il comunismo fece a Mandela e all’Anc il maggior favore nel momento in cui crollò. Con la disintegrazione del blocco sovietico e l’apertura della Cina al capitalismo, gli ultimi bianchi al potere in Sudafrica non poterono più atteggiarsi ad alleati imprescindibili dalla parte giusta della Guerra fredda. Capirono che i giochi erano finiti.
(© 2013 New York Times News Service Traduzione di Emilia Benghi)


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