Meno disoccupati ma salari fermi così negli Usa la ripresa vola basso

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NEW YORK — Sono numeri fantastici se visti dall’Europa. La disoccupazione Usa cade al livello minimo da cinque anni. In un solo mese, a novembre la crescita ha creato altri 203.000 posti di lavoro (saldo netto aggiuntivo, sottratti i licenziamenti). Il tasso di disoccupazione cala dal 7,2% al 7% ed è quasi la metà rispetto ai paesi più deboli nella periferia dell’eurozona. Nessuno usa più il termine “jobless recovery”, l’idea di una ripresa che non genera lavoro appartiene ormai al passato. Perfino Wall Street per una volta non fa il bastian contrario, gli indici di Borsa schizzano al rialzo celebrando il dato sull’occupazione, anche se per la finanza questo significa che si avvicina la fine della “droga monetaria”. Più l’economia reale sta bene, più presto la Federal Reserve comincerà a ridurre i suoi acquisti di bond, quelle operazioni di mercato aperto che oltre a schiacciare il costo del credito hanno pompato più di 3.000 miliardi di liquidità. Ma quanto è florida la salute dell’economia reale?
Il tema non è più quello della “jobless recovery” bensì un altro: il lavoro aumenta regolarmente, il reddito delle famiglie ristagna. Il dato mediocre del Black Friday — il venerdì che segna l’inizio di sconti e saldi dopo la festa del Thanksgiving — ha rivelato una moderazione nelle spese di consumo: meno 2,6% rispetto all’anno precedente. La ragione sta nel fatto che il potere d’acquisto è fermo. Certo, chi trova un lavoro sta meglio di quando era disoccupato. Ma per chi il lavoro ce l’aveva già, la busta paga è bloccata da anni o segna aumenti impercettibili. La vera debolezza di questa ripresa americana dunque sta lì. Non a caso negli ultimi
giorni è tornato di prepotenza nel dibattito pubblico il tema delle diseguaglianze. Barack Obama lo ha messo al centro di un discorso alla nazione, mercoledì, ricordando che la mobilità sociale in ascesa si è pericolosamente ridotta: il sogno americano sta diventando
un miraggio, chi nasce povero è condannato sempre più spesso a rimanerlo, e a vedere i propri figli bloccati nella stessa posizione sociale.
Due grandi città, Washington e New York, stanno operando per alzare entro le proprie circoscrizioni metropolitane il “salario minimo vitale”. E in una nazione dove i movimenti sociali sono diventati rari, fa notizia lo sciopero nazionale dei lavoratori dei fastfood: tipica categoria inchiodata ai minimi salariali. L’America ha sempre avuto una capacità di generare lavori poveri e precari in massa, il fast-food non è un’invenzione di oggi. Ma la differenza rispetto agli anni Settanta, è che allora i lavoretti attiravano in larga misura giovani studenti in cerca di occupazioni part-time per pagarsi la retta universitaria,
e altre figure sociali “in transizione” verso un futuro migliore. Oggi la tipologia del dipendente medio di un fast-food è diversa, spesso si tratta di un immigrato che con quello stipendio deve mantenere una famiglia. E non ce la fa, se viene pagato al minimo federale di 7,50 dollari. Il paradosso crudele su cui Obama ha attirato l’attenzione, denunciando il blocco della mobilità sociale, è che dei colossi del capitalismo Usa come Wal-mart (numero uno della grande distribuzione) si reggono su un “business model” che prevede l’intervento dell’assistenza pubblica per sollevare i propri dipendenti al di sopra della soglia di povertà. Il guaio di Obama, è che le sue proposte finiscono per arenarsi alla Camera, dove la maggioranza repubblicana boccia ogni disegno di legge vagamente ispirato a un’ideologia redistributiva. Perciò diventano importanti le iniziative locali, come quelle del neo-sindaco di New York Bill de Blasio e dell’amministrazione locale di Washington. Le proposte di nuovi salari minimi “vitali” puntano a un livello di 11,50 dollari l’ora.
E’ lo stesso livello, tradotto in euro, che figura nel programma della nuova coalizione di governo in Germania, dopo che la cancelliera Angela Merkel ha accettato la proposta dei socialdemocratici. In America la forza ideologica del liberismo è superiore, e in questi giorni si sta sctenando una campagna confindustriale per martellare su questo concetto: alzare il salario minimo metterà fuori mercato molte piccole aziende, e alla fine ridurrà i posti di lavoro. E’ una vecchia diatriba, risolta all’inizio del Novecento da Henry Ford quando decise robusti aumenti salariali ai suoi operai, perché potessero comprarsi le automobili che producevano.


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