Il mondo piange Mandela l’eroe della lotta all’Apartheid che è diventato leggenda
Nelson Mandela è morto ieri nella sua abitazione a Houghton. Simbolo della lotta contro le discriminazioni, primo presidente nero del Sudafrica, aveva 95 anni È stato insignito del premio Nobel per la Pace nel 1993 Forse questo intendeva Bill Clinton quando ha scritto di lui che era «un uomo divino»: un uomo dall’umanità straordinariamente eccedente.
Quando Nelson Mandela uscì dal carcere, domenica 11 febbraio 1990, aveva settantuno anni e mezzo. Un’età in cui la maggior parte degli umani tende a guardare dietro di sé, al percorso compiuto, piuttosto che davanti. Lui per giunta aveva alle spalle ventisette anni di detenzione, un’esperienza border line dalla quale è facile immaginare che si esca (quando se ne esca) per sempre spezzati o per sempre incattiviti. E invece per colui che le folle avrebbero presto chiamato Madiba è quasi come se la vita sia ricominciata daccapo quel giorno. L’apparizione ai cancelli della prigione Victor Verster, mano nella mano con Winnie (all’epoca ancora sua moglie), che era andata a prenderlo, fu davvero come una nuova nascita. L’inizio di un’esistenza infine radiosa, di una fama mondiale, l’ascesa alla presidenza del Sudafrica nel maggio del 1994 e poi ad un olimpo terreno nel quale vivrà per sempre, dopo aver realizzato il miracolo politico di liberare e tenere unita una nazione che era stata divisa dalla più radicale ingiustizia.
Il lungo cammino di Nelson Rolihlahla Mandela iniziò il 18 luglio del 1918 sulle colline del Transkei, nel sudest dell’odierna Repubblica del Sudafrica. Era nato tra i Thembu, in una famiglia legata al trono, ed era destinato ad una posizione preminente nella sua tribù. Ma i primi anni furono quelli di ogni bambino africano: piedi scalzi, lunghi giorni trascorsi nel sole e nel vento a badare alle mucche, il ritorno serale alle capanne, nel grembo di una famiglia larghissima (sua padre ebbe quattro mogli, quattro figli maschi, nove femmine).
A sette anni Rolihlahla fu mandato a scuola dai preti missionari ed ebbe il suo secondo nome, Nelson, in onore di Horatio, il grande ammiraglio britannico. Anche in questo egli è il tipico figlio della sua generazione: porta in sé, fin dalla più tenera età, la duplice identità della tradizione africana e dell’emancipazione offerta dai bianchi. Il vecchio e il nuovo, il radicamento e la trasformazione, che è l’esperienza esistenziale di ogni parabola umana ma mai così drammatica come per chi è vissuto nel secolo ventesimo e ancor più per chi, in quel secolo, si è trovato proiettato dall’arretratezza alla modernità occidentale.
Nelson Rolihlahla fece tesoro delle opportunità che la vita gli offriva. Si rivelò ottimo studente e presto si trasferì a Johannesburg per proseguire gli studi (e sfuggire a un matrimonio combinato dagli anziani della tribù). Gli anni del suo apprendistato sono quelli più sconvolgenti del secolo: la Seconda guerra mondiale, il silenzioso collasso dell’Impero britannico e, in Sudafrica nel 1948, la vittoria
elettorale dei naziona-listi bianchi afrikaner che creò la premessa per le leggi di apartheid, la ferrea segregazione delle razze, con i bianchi in posizione di dominio assoluto e i neri — la maggioranza — privati dei più elementari diritti. Per una persona amante della giustizia si apriva uno sconfinato campo d’azione e Mandela, trentenne, neolaureato in giurisprudenza, giovane avvocato, vi si gettò
a capofitto. Risale alla vigilia del conflitto mondiale l’incondizionata adesione all’African National Congress e l’inizio della militanza politica che in poco tempo lo porterà ai vertici del movimento anti-apartheid. Colui che era destinato a un ruolo di capo tribale diventa un leader politico, personalità di punta degli young lions, la nuova leva di giovani dirigenti “arrabbiati” dell’Anc, figura di riferimento per i democratici sudafricani.
Per tutti gli anni cinquanta si susseguono le vessazioni, le denunce, gli arresti. Gli spazi dell’azione politica si restringono fino a scomparire. L’opposizione democratica è impossibile. Le manifestazioni vengono represse nel sangue; i leader vengono imprigionati. Alla fine del decennio l’Anc è dichiarata fuorilegge, i suoi dirigenti finiscono tutti coimputati in un processo per tradimento
che è una montatura e infatti collassa. Mandela è nuovamente libero ma costretto all’azione clandestina; l’Anc decide di passare alla lotta armata ed egli diviene il capo dell’organizzazione militare segreta, l’Umkhonto we Sizwe.
In questi anni eroici scocca anche il colpo di fulmine per Winnie; finisce il primo matrimonio e si celebrano le nozze febbrili con la seconda, bellissima sposa. Poi la «primula nera», come lo chiamano i giornali dell’epoca, scompare nuovamente nella clandestinità.
Nel 1963 il secondo, definitivo, arresto e una serie di processi e condanne che culminano nell’ergastolo. Così si conclude la prima vita di Mandela, con le porte di ferro dell’isola-prigione di Robben Island, al largo di Città del Capo, che si chiudono alle sue spalle. Egli perde il nome e diventa, nel sistema penale dell’apartheid, un numero: 46664. 466 la cella; 64 l’anno di incarcerazione. Questo secondo periodo dura 27 anni, dietro quei cancelli e poi quelli di un altro paio di istituti di pena. L’apartheid trionfa. Per oltre un decennio perfino l’esistenza del futuro Madiba è ignorata dai più. Fino alla rivolta dei giovani di Soweto nel 1976, il grande risveglio, al prezzo di un altro bagno di sangue.
Da quel momento il sistema della tirannide razziale incomincia a mostrare crepe che non si riuscirà mai più a colmare. Lentamente, inesorabilmente, il mondo ritorna a guardare e Nelson Mandela diventa «il prigioniero politico più famoso del mondo», come lo chiamano i giornali.
La liberazione, quel radioso pomeriggio del febbraio 1990, quattro mesi dopo il crollo del Muro di Berlino, è una rinascita — l’inizio della terza vita — anche nel senso che Mandela recupera un volto. Non esisteva di lui un’immagine dal 1962; i giornali pubblicavano identikit frutto di elaborazioni al computer. Oggi non c’è essere umano sulla Terra che non conosca la sua faccia. Nel ‘93 gli venne conferito il premio Nobel per la pace insieme a Frederik de Klerk, ultimo presidente bianco del Sudafrica. Nel 1999, allo scadere del mandato presidenziale, a ottant’anni compiuti, Mandela aveva lasciato ogni carica e si era ritirato a vita privata. Entrando così nella sua quarta vita, quella immortale, della leggenda, che durerà per sempre.
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