Perché le primarie non bastano
Nelle prossime settimane, i 475mila iscritti del partito socialdemocratico (Spd) voteranno sul programma di governo che i propri dirigenti hanno concordato con Angela Merkel, e il 14 dicembre emetteranno la loro sentenza: sì o no alla Grande Coalizione, sì o no alle singole politiche, sì o no a un’alleanza diversa da quella promessa in campagna elettorale. La sentenza sarà accolta se voteranno almeno 95.000 militanti (il 20% dei consultati).
Le nostre primarie sbiadiscono, di fronte a un salto di qualità che con vigore rimette al centro gli iscritti. La crisi dei partiti è riconosciuta, la loro personalizzazione è giudicata calamitosa. È sulla sostanza delle politiche che si vota, non su leader più o meno promettenti. È come se i socialdemocratici dicessero: sappiamo che c’è stato tradimento, che il piano negoziato con la Merkel non è quello che volevamo realizzare con i Verdi (giustamente Guido Rossi lo chiama piano non della Grande Coalizione madella
Grande Stagnazione.
C’è il salario minimo, ma nessun progresso sull’Europa). Ma non ci appelleremo alla Necessità — dicono i vertici Spd — non celebreremo la Stabilità come valore assoluto. Potete dire no, siamo davanti a un bivio e non a un vuoto di alternative. Nel mare della Necessità, voi iscritti avete una libertà, e una responsabilità, che per anni vi avevamo negato.
Questa libertà, l’economista Amartya Sen la chiama capacitazione, empowerment.
Specie in tempi di malessere economico e democratico, occorre dare ai cittadini il senso di avere un potere, tale da influenzare la politica: «La capacitazione è una sorta di libertà: la libertà sostanziale (…) di mettere in atto più stili di vita alternativi».
La socialdemocrazia sa perfettamente i rischi: fiuta il sì della base, ma non può esserne del tutto certa. La democrazia rappresentativa che vuol salvare potrebbe guastarsi ancor più. Se ha deciso di correre pericoli così vasti è perché ben maggiore gli è apparso il pericolo della stasi, delle cerchie partitiche sempre più lontane dalla base. Il voto sulla Grande Coalizione è un atto di consapevolezza, un conosci te stesso al contempo umile e astuto: se patteggiamo con chi abbiamo avversato senza consultare la base rischiamo il tracollo, l’illegittimità democratica. Accadde nella Grande Coalizione del 2005-2009: 23% di voti in meno, subito dopo. Non si violano impunemente i patti con l’elettore.
Dunque si torna alla prima fonte di legittimità che sono gli iscritti, troppo a lungo esautorati, dando loro nuovi diritti- poteri ma anche nuova voglia di far politica, di governare. Dice Sigmar Gabriel, presidente Spd: «L’intera responsabilità è nelle mani del singolo iscritto». Il partito deve rispondere alla base di quel che fa, e viceversa. Da promettenti che erano, i capi si fanno rispondenti.
Per questo le vicende tedesche sono così importanti per le nostre primarie. Dice Pippo Civati, pensando alla Spd: «Da noi abbiamo un partito ben diverso, che non si fa mai vivo con i suoi elettori ». Il Pd declina, mentre Grillo sale. Non basta incoronare il capo, se non si sa bene cosa farà.
Non ammettere la crisi dei partiti, e in genere della democrazia rappresentativa, è la via più sicura per svilire ambedue. Come partito hai un potere dilatato al centro, più danaroso, ma in cambio immoli la fiducia degli elettori e le periferie. Lo spiega con nitida crudezza il politologo Piero Ignazi: il partito diventa un «cartello elettorale statocentrico» — parte dello Stato, non più controparte — ma perde legittimità scansando la società (Forza senza legittimità, Laterza 12). La forza persuasiva di ricostruttori come Fabrizio Barca (il suo candidato è Civati) nasce da analisi simili.
Adottare il conosci te stesso è colmo di insidie, non ignote alla Spd. Nella democrazia rappresentativa entrano elementi di democrazia diretta, e secondo alcuni la Costituzione ne soffre. Lo sostiene il giurista Christoph Degenhart, sul giornale
Handelsblatt, e non è il solo: se gli iscritti possono disfare le politiche dei propri capi e parlamentari, cade un principio nodale della Carta: quello che vieta, in Germania e Italia, il vincolo di mandato.
Barca ricorda tuttavia i dissensi tra i padri costituenti. Per Ruggero Grieco, l’esclusione di vincoli favoriva «il sorgere del malcostume politico».
Secondo Degenhart, il referendum prefigura un mandato imperativo,
assente nella Carta: la base detterebbe legge ai rappresentanti. Non solo: anche il principio del popolo sovrano verrebbe eluso (art. 1 della nostra Costituzione. In Germania l’art. 20 include il «diritto alla resistenza» se la Carta è violata). Non sarebbe il popolo a decidere, ma infime sue porzioni. «La maggioranza vota i rappresentanti della politica, una minoranza vota sui contenuti» (Jasper von Altenbockum, Frankfurter Allgemeine 23-11).
A queste obiezioni, Gabriel replica segnalando il degrado della democrazia rappresentativa: il popolo sovrano non ha votato la Grande Coalizione (da noi non ha eletto le Larghe Intese). Consultare i militanti è forse l’unico modo per frenare la dilagante ripugnanza — in Germania si chiama Basta-Politik — per la politica e i partiti. Incostituzionale è escludere i corpi intermedi fra popolo e Stato (o governo): la vera sovranità apparterrà a ristrette élite di tecnici o parlamentari definiti Saggi. La Carta prescrive infine partiti democratici: anche quest’ordine va rispettato. «Il referendum farà scuola in Europa », aggiunge Gabriel.
L’ascesa del M5S è frutto di un deterioramento oligarchico della rappresentanza specialmente acuto. Accentuato da un Porcellum cui l’oligarca s’aggrappa. Immerso nella Basta-politik, Grillo esige come correttivo innesti di democrazia diretta e deliberativa. Poco chiaro resta l’orizzonte che propone, e se le ambiguità di una democrazia più referendaria siano percepite. Tutto dipende da come vengono poste le domande, nel nuovo ordinamento. Prendiamo il referendum sull’Europa, voluto o sognato da 5 Stelle. È un’uscita benefica dalla crisi della rappresentanza se i cittadini sono messi davanti a precisi propositi alternativi (nel caso della
Grosse Koalition: salario minimo per tutti a partire dal 2017; età pensionabile che scende in alcuni casi da 65 a 63 anni). Non è benefica se la scelta è fra euro o non euro: sarebbe cadere da un guaio a un altro, dall’illusione tecnocratica a quella nazionalista, i cui disastri son noti.
Ben altra prospettiva se il referendum di M5S contenesse la domanda essenziale: «Visto che l’austerità europea non ha legittimità democratica, siete favorevoli o no a un’altra Europa, che mantenendo la moneta unica scelga come fondamento la solidarietà, gestisca insieme i debiti, abbia una Banca centrale prestatrice di ultima istanza, aumenti il bilancio comune per finanziare una collettiva ripresa ecosostenibile, si dia una vera costituzione democratica, non partecipi più supinamente a guerre esterne?». È la linea di Tsipras in Grecia, in vista delle elezioni europee di maggio, e in Italia di Virgilio Dastoli, presidente del Consiglio italiano del Movimento europeo. Allora sì varrebbe la pena indire un referendum: non solo in Italia ma nell’Unione. Non è la strada di 5 Stelle, ma quel che resta delle sinistre potrebbe imboccarla.
Grillo a parte, solo la sinistra riconosce, quando vuole, la forza ormai illegittima dei partiti. In Italia le destre sono mute, e altrove seguono arrancando. Enorme è la sua responsabilità, se mancherà l’occasione di reinventare sia la democrazia, sia l’Europa.
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