Bill Gates e le cure anti-Aids “È un investimento intelligente ora lo ha capito anche l’Italia”

by Sergio Segio | 4 Dicembre 2013 8:25

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WASHINGTON. DALL’ALTO dei 28 miliardi di dollari che ha donato in questi 13 anni, potrebbe anche trattarci come degli egoisti e dei taccagni. Ma Bill Gates oggi è magnanimo, oltre che politicamente accorto.

IL FILANTROPO più famoso del mondo vuole celebrare il “ritorno del figliol prodigo”: il gesto dell’Italia che dopo anni di latitanza torna a investire nel Global Fund per la lotta contro l’Aids, la tubercolosi e la malaria. Il creatore della Microsoft è a Washington per annunciare che la Fondazione Bill e Melinda Gates raddoppia in un sol colpo il suo contributo al Global Fund portandolo a quota 500 milioni di dollari (e diventano 1,6 miliardi per il meccanismo di “aggregazione” di altri donatori privati). L’Italia si limita quest’anno a stanziare 100 milioni di euro, poca cosa anche rispetto a due nazioni europee come Inghilterra e Francia che gareggiano sulla soglia del miliardo. E tuttavia Gates apprezza la “svolta”, dopo anni in cui Roma aveva disatteso gli impegni presi, fino a uscire dal Global Fund (la cui creazione era stata annunciata proprio nel G8 di Genova 12 anni fa). In questa intervista esclusiva a Repubblica, l’imprenditore che ha trasportato il suo know-how manageriale nella gestione degli aiuti ai paesi poveri, parla dei risultati ottenuti nella guerra alle epidemie, delle polemiche contro altri magnati hi-tech, della sua idea di capitalismo
«non-dinastico». Mi riceve nella sua camera al Willard Hotel, a pochi metri dalla Casa Bianca dove ha incontrato Barack Obama nella giornata mondiale anti-Aids.
L’Italia si era ritirata dal Global Fund nel 2011. In piena recessione, sotto la pressione dell’austerity, era passata l’idea che “non ci possiamo permettere” di aiutare i paesi più poveri. I fondi privati che lei catalizza, sono diventati uno stimolo agli Stati. Com’è riuscito a convincere gli scettici?
«Non mi prendo nessun merito per delle decisioni politiche che vengono prese dai governi di ogni nazione. Mi auguro solo che ciascun italiano, e ciascun cittadino del mondo, possa vedere con i propri occhi quel che si ottiene comprando reti anti-malaria. L’efficacia degli aiuti, è l’argomento più forte. Nel 1960 morivano 20 milioni di bambini sotto l’età di cinque anni. Nel 2012 ne sono morti 6,6 milioni, in percentuale sulla popolazione l’ecatombe si è ridotta a un quinto. Sono ancora troppi, certamente. Abbiamo gli strumenti per scendere sotto i tre milioni in 15 anni. È fantastico che l’Italia torni dentro il Global Fund, anche se certo la vostra generosità resta inferiore a quella degli inglesi, dei francesi, e di altri. Ma in un solo anno si salveranno 45.000 vite umane con i medicinali che comprerete voi».
Gli effetti della nostra crisi economica si sono cumulati ad un diffuso scetticismo sulla politica degli aiuti pubblici. Lei sostiene che questi aiuti sono «l’investimento intelligente» che le nazioni ricche debbono fare. Che cosa intende?
«Lo scetticismo non fa i conti con i risultati reali. I costi per il trattamento dell’Hiv-Aids sono stati ridotti del 99%, da più di 10.000 dollari a meno di 200 dollari all’anno. In molti paesi l’incidenza dell’Hiv-Aids è scesa oltre il 50%, e il regresso riguarda anche l’Africa subsahariana.
Le morti per malaria in Africa sono diminuite del 33%. Questa battaglia va fatta, con più risorse di prima, anzitutto per ragioni umanitarie. Ma è un investimento intelligente perché è la risposta migliore ai flussi migratori: un miglioramento delle condizioni di salute, delle opportunità di sviluppo umano, contribuisce a far restare le persone nei loro paesi d’origine. Rallenta anche l’esplosione demografica, perché l’eccesso di natalità purtroppo è una risposta perversa alle decimazioni inflitte dalle epidemie. C’è una spirale della sofferenza, quella che fa sì che i paesi troppo poveri non possano avere abbastanza medici, e le disastrose condizioni di salute intrappolano la popolazione, la privano di opportunità di sviluppo delle persone, distruggono le loro risorse umane. Un altro esempio di spirale viziosa lo abbiamo avuto quando l’epidemia di Hiv-Aids, facendo cadere le difese immunitarie, moltiplicava le vittime di altre malattie come la tubercolosi. Tutte queste spirali si possono invertire, ne abbiamo le prove concrete. La malaria esisteva in molte regioni d’Italia fino a un’epoca relativamente recente, tant’è che alcuni scienziati italiani furono tra i primi esperti di questa malattia. Ma l’avete debellata, in particolare con le bonifiche delle paludi. Altri esempi che la spirale del sottosviluppo si può invertire: la Corea del Sud era un paese destinatario di aiuti, ora si è trasformata in un paese donatore. La Cina, il Brasile, hanno smesso già da tempo di ricevere aiuti e potrebbero passare dalla parte dei donatori».
Di recente ha fatto notizia la polemica che l’ha opposta a Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook. Zuckerberg ha definito come «una delle sfide più importanti del nostro tempo» offrire a tutti l’accesso a Internet. Peraltro anche Google investe in progetti come i “dirigibili” che dovrebbero portare il wi-fi nelle regioni più remote del pianeta. Lei ha ribattuto che salvare milioni di bambini col vaccino della malaria le sembra più importante.
«Se devi scegliere, non ho dubbi su quale sia più importante. Non voglio sottovalutare la questione del divario digitale tra ricchi e poveri, tra Nord e Sud del pianeta. E riconosco che la rivoluzione digitale ha anche delle ricadute benefiche nell’accesso alle cure mediche. Ma non dimentichiamoci questi numeri: una rete anti-malaria costa appena 50 centesimi, un vaccino contro le malattie infantili ancora meno. Per quei paesi che hanno superato la soglia del sottosviluppo, come la Cina che si classifica tra le nazioni di medio reddito, diffondere l’accesso online a tutta la popolazione è una sfida attuale. Ma per i più poveri, la salute resta la priorità. Gli imprenditori digitali naturalmente conoscono bene il loro settore, e apprezzano il valore dell’accesso a Internet. Io ho passato l’ultimo decennio della mia vita, almeno part-time, a cercare di capire meglio la gravità delle malattie e i prezzi che fanno pagare all’umanità».
Con sua moglie Melinda avete scelto di destinare la maggior parte del patrimonio familiare alla Fondazione filantropica che porta il vostro nome, anziché lasciarlo in eredità ai figli. Lei si è fatto promotore di un’iniziativa presso tutti gli altri miliardari d’America, perché facciano altrettanto. E in molti hanno risposto positivamente. In Italia c’è una cultura capitalistica che ancora preferisce perpetuare le dinastie ereditarie. Perché lei ritiene che questo modello non sia il più efficiente?
«Io cominciai a pormi il problema di cosa fare con le mie ricchezze quando avevo trent’anni. Con Melinda abbiamo creato la Fondazione tredici anni fa. Ma in America non siamo casi eccezionali: qui c’era una tradizione filantropica che risaliva ai Carnegie e ai Rockefeller. Ho spiegato con un’immagine, perché penso che dal punto di vista dell’uso delle risorse di una nazione, non sia ideale lasciare i grandi patrimoni in eredità: quando vuoi vincere le prossime Olimpiadi, non selezioni per la tua squadra nazionale i figli dei vecchi campioni olimpionici. Dal punto di vista della società, è sbagliato che una minoranza di privilegiati abbiano tanti mezzi senza dovere lavorare per meritarseli. Melinda e io siamo anche convinti che non si fa un favore ai propri figli lasciandogli tanto, è demotivante. Io spero che l’esempio americano sia adottato da altri, in Europa e non solo. Con le grandi ricchezze che si stanno generando in Cina e in India, mi auguro che anche lì avanzi un nuovo ruolo per la filantropia».

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