Così muoiono i nuovi schiavi

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PRATO. Tutte chiuse. «Per ferie». I padroni delle fabbriche-materasso del Macrolotto hanno capito subito l’aria che tira. Ancor più insostenibile, per loro, del puzzo di bruciato e di morte che si respira in via Toscana, dove i vigili del fuoco hanno continuato a lavorare per l’intera giornata cercando di bonificare il capannone andato a fuoco all’alba di domenica. A far capire la situazione valgono le parole del procuratore Piero Tony, che spiega come dopo 36 ore non sia ancora chiaro chi siano i gestori cinesi della ditta «Teresa Moda», dove sette operai cinesi sono bruciati vivi e altri due lottano fra la vita e la morte all’ospedale di Prato.
La strage che lo stesso magistrato considera annunciata («è successo quello che era prevedibile o comunque era da temere») è stata provocata con ogni probabilità da una stufetta elettrica andata in corto circuito. Tanto è bastato, secondo i pompieri, per trasformare in un enorme rogo il capannone, al cui interno lungo una parete erano stati costruiti veri e propri «loculi» sopraelevati, realizzati in cartongesso per dividere i diversi ambienti. Qui dormivano gli operai della ditta, specializzata nel pronto moda. La lavorazione non avveniva con macchine tessili ma utilizzava tessuti sintetici e cellophane per confezionare gli abiti, tutti materiali che hanno subito alimentato le fiamme.
Al Macrolotto, zona industriale della città costruita negli anni ’80 con ampie strade per il passaggio dei tir e una sufficiente urbanizzazione, si snoda tutto il sistema industriale del pronto moda, che alimenta il mercato dell’abbigliamento europeo. Si tratta di un metodo di produzione dei vestiti che si basa sulla velocità di realizzazione dei capi – il just in time – e sulla loro quantità. Così si abbattono i prezzi dei capi, con il marchio Made in Italy anche quando le stoffe arrivano dall’Asia, venduti a grossisti di ogni paese d’Europa, con un incessante, quotidiano passaggio di autoarticolati.
Nel corso dei controlli, intensificati solo negli ultimi anni, è emerso come spesso, all’interno dello stesso capannone, ci sia un numero di ditte maggiore dell’unità immobiliare che le contiene: più aziende condividono uno stabile, oltre che macchinari e parte della mano d’opera. Quanto agli operai, di quelli controllati nel 2013 più del 25% è risultato senza o con i documenti non in regola. La percentuale delle irregolarità è salita a dismisura sul fronte degli abusi edilizi, igienici e di sicurezza dei capannoni, più della metà non era in regola.
Di fronte alle domande su un presunto lassismo nei controlli, il procuratore Tony segnala: «In un’area in cui la densità di imprenditoria straniera è la prima in Italia, la procura e le forze dell’ordine hanno compiuto in quattro anni 600 sequestri di capannoni. Pur nella penuria di organici, i controlli hanno riguardato 1.400 strutture». Ma nel labirinto delle ditte del Macrolotto, è come vuotare un lago con un secchiello: i dati della Camera di Commercio registrano quasi 5mila aziende gestite da cinesi a Prato, di cui almeno il 70% nel settore dell’abbigliamento, e la metà di queste è insediata proprio nella zona industriale, di cui via Toscana è uno dei centri nevralgici.
«Siamo in presenza del più grande distretto tessile sommerso – spiega Enrico Rossi – che si basa sullo sfruttamento di decine di migliaia di lavoratori, ridotti in schiavitù, che lavorano a un euro l’ora». Il presidente toscano chiede l’intervento del ministro Alfano e del premier Letta: «Il problema di questa enclave deve essere affrontato in chiave nazionale: il governo cinese deve essere chiamato in causa sia per costruire accordi in materia di lotta alla criminalità, che per contrastare e concertare la concessione dei visti in uscita dalla Cina, eliminando il più possibile la clandestinità. Poi la presenza dello Stato deve essere rafforzata, e occorrono interventi legislativi per esercitare un più rigoroso controllo sugli affitti e sulle cessioni». Intanto gli risponde il presidente Napolitano con una drammatica lettera al governatore della Regione Toscana in cui chiede di «mettere un freno a lavoro in nero e sfruttamento». Perché quanto fatto fino ad oggi non è servito a niente: «È un anno che parliamo con le persone indicate dalle autorità cinesi per cercare una soluzione – attacca il sindaco pratese Roberto Cenni – ma siamo a zero, solo chiacchiere».


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