UNA STAGIONE CHE NON VUOLE TRAMONTARE

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E se sia possibile costruire qualche vascello, anche di fortuna, per riprendere il mare. Se nel corpo del paese ve ne sia sufficiente desiderio e forza, prima ancora che la possibilità. […] Dalla cronaca prendono inevitabilmente avvio molte riflessioni: alla storia però, alla nostra storia, fortissimamente rimandano un crollo così rovinoso del sistema politico e una involuzione così profonda del paese. E il nesso fra cronaca e storia è centrale: proprio quel nesso può aiutare a muoversi fra le nebbie, e spesso fra le melme, della seconda Repubblica. Nebbie e melme che hanno radici negli stessi processi che portarono al crollo della prima: gli stessi che presiedettero poi a una transizione illusoria e fallimentare. E rimandano ancor più all’indietro: rimandano, a dirla in breve, alla qualità stessa — o meglio, alle contraddizioni e ai guasti — della modernizzazione italiana, e al rapporto fra istituzioni, sistema politico e paese. All’evolversi o al degradare di questo rapporto nel corso dei decenni.
Al centro vi è dunque una seconda Repubblica fallita e forse mai nata: illuminata però anche da speranze e impegni civili, ansie di rinnovamento e di trasformazione. Sempre più flebili, col passare del tempo: perché? Questa domanda è diventata via via centrale in una riflessione che era nata come tentativo di cogliere i tratti profondi della stagione berlusconiana, il suo significato, il suo collocarsi nella più lunga storia della Repubblica. Di comprendere, anche, le ragioni del suo permanere: le sue radici e al tempo stesso le deformazioni che ha indotto e induce nel corpo vivo della nostra società. Il suo rafforzare e al tempo stesso rimodellare processi già avviati nel corso degli anni Ottanta: con lo sprezzo crescente dei valori e dei vincoli collettivi, con il primato del “sé” sul bene pubblico, con l’erosione quotidiana delle norme elementari di legalità e diritto. Perché però questi processi hanno trovato così deboli anticorpi? Perché la stagione di Berlusconi, più volte erosa da se stessa — dalle sue incapacità e dalla miseria del suo illusionismo — ha potuto protrarsi così a lungo, inducendo stravolgimenti gravi nel funzionamento delle istituzioni? Stravolgimenti, anche e soprattutto, nella cultura del paese: vent’anni fa il primo avviso di garanzia già incrinò la credibilità di Bettino Craxi, oggi una condanna definitiva è sembrata sostanzialmente irrilevante a una parte non piccola degli italiani. Senza contare quelli che la considerano semplicemente iniqua.
Questi erano e sono dunque i nodi centrali che portano a una riflessione sempre più insistita sulla inadeguatezza della sinistra. Sulla sua incapacità di opporsi davvero a queste derive e al tempo stesso progettare il futuro, delineare un modo diverso di “essere italiani”, restituire ai cittadini la fiducia nella democrazia: una fiducia gravemente erosa da una “partitocrazia senza partiti” povera o priva di etica. Come ne Il rinoceronte di Eugène Ionesco la mutazione sembra quasi senza scampo: così appare, perlomeno, a quella metà degli italiani che è rifluita nell’astensione o ha votato per il Movimento 5 Stelle. E non solo a loro. Come si è giunti al deserto di oggi? E vi è qualche possibile via d’uscita?
Non è certo facile uscire dal disorientamento o dal rimpianto per quel grande e articolato mondo che è stata la sinistra italiana, con le sue passioni e i suoi miti, le sue generosità e i suoi slanci (senza dimenticare naturalmente i suoi errori e le sue colpevoli rimozioni). Si fa fatica a districarsi fra culture differenti, da quella comunista a quella azionista, e fra l’accumularsi di crisi diverse: certo è che alla seconda Repubblica approda una sinistra ormai priva di alcuni suoi tratti fondamentali e fondanti. Già negli anni Settanta del resto — cioè nel momento della sua massima espansione e del suo maggior prestigio — erano entrati progressivamente in crisi alcuni suoi architravi tradizionali: dai riferimenti internazionali alla centralità ed egemonia della classe operaia (apparentemente trionfante, allora, ma quasi espulsa poi dal discorso pubblico in un brevissimo volger di tempo). Sino all’idea stessa di progresso, di sviluppo lineare e senza limiti, che stava al fondo già del socialismo ottocentesco: su questo terreno la crisi petrolifera sancisce uno spartiacque epocale (forse inavvertito, allora, nella sua interezza). Ce n’è d’avanzo: negli anni Ottanta la sinistra si trova a navigare nei flutti impetuosi del neoliberismo e nella crisi del welfare senza più rotta. E con un elemento ancor più profondo di spaesamento. A dirla in breve: negli anni Ottanta la modernità inizia a non portare più “automaticamente” con sé l’allargamento dei diritti collettivi, della partecipazione dei cittadini, delle acquisizioni sociali. L’innovazione sembra separarsi dal progressismo politico, il vento della modernizzazione e quello del progresso civile non soffiano necessariamente insieme. È messo in discussione in più forme, insomma, il coniugarsi stesso della sinistra al mutamento e alla speranza di trasformazione: e contemporaneamente la sua “diversità” inizia ad appartenere al passato. Nel crollo della prima Repubblica, poi, la sinistra manca in gran parte alla prova, incapace com’è di rinnovare realmente la politica e il proprio modo di essere: destinata dunque ad apparire a molti elettori come l’ultima espressione di un sistema dei partiti fallito. L’ultima incarnazione del vecchio: poco convincente e poco attrattiva anche quando l’illusorio nuovo del centrodestra mostra tutta la sua miseria.
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IL LIBRO
Diario di un naufragio di Donzelli pagg. 255 euro 19,50 In libreria da oggi


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