by Sergio Segio | 24 Novembre 2013 9:28
Sono parole che potrebbero riguardare anche l’assalto dello stesso giorno al mio Circolo Pd dei Giubbonari in Roma e il messaggio «dovreste essere in carcere o a penzolare a testa in giù» che lo ha accompagnato. O i gesti e i pensieri di centinaia di migliaia di cittadini che leggono le vicende e le decisioni pubbliche quotidiane, qualunque esse siano, come un “loro” contro “noi”. Marco Doria, a Genova, è stato aggredito perché è passato da “noi” a “loro”. “Loro” è la classe dirigente, politica, istituzionale, dei mezzi di comunicazione di massa, delle imprese, e anche sindacale. “Noi” è il 99% dei cittadini, il popolo che si sente fuori del potere.
Se la distanza abissale che si è aperta fra “noi” e “loro” non viene colmata, il Paese non va da nessuna parte. La mano di chi aggredisce e imbratta un Circolo di partito — non è certo la prima volta, non sarà l’ultima — è sempre di pochissimi. Ma parla della sfiducia assoluta di moltissimi “noi”.
Questa sfiducia impedisce il cambiamento.
La sfiducia di “noi” blocca la partecipazione diffusa alle decisioni pubbliche e alla loro attuazione; anche quando — non è frequente, ma capita — le istituzioni provano a coinvolgere i cittadini, dalle scuole alla cura di infanzia e anziani, alle opere ferroviarie, da Acerra a Genova, al Sulcis. La sfiducia priva “loro” della conoscenza e del saper fare di “noi”. La sfiducia spinge “loro” a dare in pasto a “noi” i sacrifici che la casta dei mezzi di comunicazione di massa invoca per la casta del palazzo — auto blu, Province e roba simile — sacrifici che nulla valgono e nulla cambiano ma che comprano altre settimane di vita per i governi. La sfiducia dà a molti “noi” l’alibi per comportamenti amorali, per non rispettare regole, imposte e doveri — «“loro” non li rispettano» — con la scusa di “non fare la figura dell’unico fesso che crede ancora nello Stato”; e così trasforma “noi” in “loro”, senza che ipocritamente lo si ammetta.
“Loro” — di cui io faccio parte, beninteso, come faccio parte anche di “noi” — possono riconquistare questa fiducia solo facendo accadere cose, verificabili. Non promettendole. Ma non può accadere nulla di buono se non c’è fiducia, capace di mobi-
litare conoscenza e consenso. Ecco il circolo vizioso, la trappola, in cui siamo conficcati: non ci può essere fiducia senza cambiamento; non ci può essere cambiamento senza fiducia.
Per uscire dalla trappola, per evitare che questa uscita sia peggio del male — un’uscita autoritaria, tanto per intenderci — “loro” dovrebbero fare la prima mossa, una mossa vera e radicale. Il passo indietro di una generazione — quella al potere — come suggerisce Michele Serra, che metta in circolo nuove energie, rinnovi l’amministrazione, inietti concorrenza nel sistema delle imprese, dia un colpo al cinismo e alla rinunzia. Ma all’amor proprio di “loro” questa mossa converrà solo quando si troveranno sull’orlo del burrone e non ci saranno più Monti e taglio delle pensioni per tornare indietro. Non servirà, perché a quel punto sarà tardi. E allora?
Allora, c’è la politica. La sola che permette di uscire dalla trappola. Un pensare e agire collettivo dove amor proprio e amore per gli altri — spirito pubblico, scriveva Adam Smith — si mescolano in un moto dove tutto diventa possibile, perché non è più la convenienza spicciola a guidare i comportamenti. Ma la visione, il disegno di una rigenerazione, guidata da valori robusti, di sinistra. Coerente con l’idea di sinistra che il cambiamento delle gerarchie sociali è un valore in sé.
E così diviene possibile immaginare che un bel pezzo di “loro”, la classe dirigente che appartiene o fa riferimento al Pd, faccia unilateralmente il passo indietro. Concordando con le leve “giovani” che subentrano, non un lasciapassare o qualche posto al sole da cui “cumannari” ancora, ma l’annuncio e la pratica di nuove regole del gioco, per assicurare che dopo una breve cavalcata nuovista i nuovi non si trasformino in “loro”, prima ancora di accorgersene. Insomma un partito palestra, che coinvolga le forze dei territori, le intelligenze, il lavoro in uno straordinario e emozionante impegno per riscrivere il Paese. E che sappia costruire un rapporto robusto fra generazioni, con le nuove leve che dirigono e quelle vecchie che si lasciano usare.
Di questo passo indietro, delle nuove regole del gioco che devono accompagnarlo, di come ripristinare i canali di comunicazione tra partito e società, di “tre questioni” sulle quali galvanizzare “noi” attorno ad una visione di sinistra dell’Italia del 2033, vorremmo vedere discutere Pippo Civati, Gianni Cuperlo e Matteo Renzi da qui al 7 dicembre notte. Assieme e più volte. Perché un Congresso sia davvero un Congresso (come lo è stato, nonostante tutto, in molti circoli e province del Paese). Perché già dal confronto intenso ma coeso venga il segnale limpido di un impegno a colmare il vuoto fra “noi” e “loro”.
L’autore è ex ministro per la Coesione territoriale
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