by Sergio Segio | 1 Novembre 2013 8:09
ROMA — Pronto, e «ben lieto» di dare «un utile contributo all’accertamento della verità» nel processo in corso sulla trattativa fra Stato e mafia. Però, su quel che vorrebbero sapere i giudici a proposito delle preoccupazioni di Loris D’Ambrosio, il consigliere giuridico del Quirinale morto un anno fa, Giorgio Napolitano anticipa già di non avere molti elementi da offrire, lo lascia intendere parlando di «limiti delle mie reali conoscenze».
Il presidente della Repubblica dunque dice di sì alla richiesta della Corte d’assise di Palermo che lo ha citato nella lista dei testimoni eccellenti sul giallo della trattativa avvenuta nel ’92 fra le istituzioni e Cosa nostra, decidendo dopo una attenta valutazione di non sollevare stavolta alcun conflitto di attribuzione. Il presidente della Repubblica ha dato la sua disponibilità ad essere ascoltato – al Quirinale, come è previsto in questi casi – in una lettera inviata al presidente Alfredo Montalto, che a questo punto (alla luce anche delle precisazioni fatte da Napolitano sulle sue reali conoscenze sui fatti in oggetto) dovrà decidere, e concordare eventualmente la trasferta della Corte al Colle (non saranno in ogni caso tempi brevi).
È un gesto di rispetto da parte del capo dello Stato nei confronti della Corte che nell’ottobre scorso aveva accolto la richiesta del pm Di Matteo, chiamando a sorpresa e clamorosamente Napolitano a raccontare ai giudici se D’Ambrosio gli avesse confidato qualcosa in più di quelle preoccupazioni di cui lo scomparso magistrato parlò nella sua drammatica lettera di dimissioni (respinte)
presentate al capo dello Stato il 18 giugno del 2012. Quel timore «di essere stato considerato un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi » che ha fatto scattare nei pm palermitani il dubbio che si riferisse appunto alla famigerata trattativa. E un atto di considerazione, il suo sì alla testimonianza, che Napolitano sottolinea di aver deciso di prendere «indipendentemente » dalle riserve espresse da suoi predecessori al Colle. Cossiga fece fuoco e fiamme contro l’allora giudice Casson, che voleva sentirlo su Gladio, sollevando la questione di costituzionalità dell’articolo 205, comma 1, del codice di procedura penale, che appunto disciplina i casi i cui un presidente della Repubblica può essere chiamato dai magistrati.
Un braccio di ferro che l’attuale inquilino del Colle non ha voluto invece ingaggiare, pure se alcuni costituzionalisti avevano sollevato dubbi sulla richiesta della Corte d’assise. Convinto probabilmente, da un punto di vista formale, dai paletti sistemati dai giudici che hanno escluso ogni domanda attinente alle distrutte intercettazioni con Nicola Mancino. E, sotto l’aspetto più politico, dall’opportunità di non prestare il fianco a polemiche con i magi-strati, che potrebbero rischiare di ricordare le guerre berlusconiane. Resta da capire, una volta che la testimonianza del capo dello Stato verrà effettivamente raccolta, se all’udienza al Colle saranno in collegamento anche i boss di Cosa Nostra, Riina in testa.
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