Stato-mafia, Napolitano frena

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PALERMO — «Non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di poter fare se davvero ne avessi da riferire». Ecco la lettera che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha inviato alla Corte d’Assise di Palermo dopo la sua citazione come testimone al processo per la trattativa Stato-mafia. Due pagine, giunte nei giorni scorsi, che adesso i giudici hanno messo a disposizione di pubblici ministeri e avvocati. Perché la nota del capo dello Stato riapre nei fatti la discussione sulla sua testimonianza al processo di Palermo: Giorgio Napolitano ribadisce di non conoscere alcun retroscena sulla lettera che interessa tanto la Procura, quella che gli fu inviata dal suo consigliere giuridico Loris D’Ambrosio il 18 giugno dell’anno scorso, poco prima di morire.
Era una lettera dai toni drammatici, in cui D’Ambrosio ribadiva la correttezza del suo operato dopo le polemiche seguite alla pubblicazione delle telefonate con l’ex ministro Nicola Mancino, intercettato nell’ambito dell’inchiesta trattativa. Alla fine di quella lettera, D’Ambrosio si lasciava andare a uno sfogo, che esprimeva un timore, «quello di essere stato considerato un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi, e ciò nel periodo fra il 1989 e il 1993». Era il periodo in cui D’Ambrosio fu prima all’Alto commissariato per la lotta alla mafia e poi al ministero della Giustizia.
«L’essenziale — scrive adesso il presidente — è comunque il non aver io in alcun modo ricevuto dal dottor D’Ambrosio qualsiasi ragguaglio o specificazione circa le “ipotesi” — solo “ipotesi” — da lui “enucleate” e il “vivo timore” cui il mio Consigliere ha fatto generico riferimento». Napolitano ribadisce: «Né io avevo modo e motivo — neppure riservatamente, nel colloquio del 19 giugno — di interrogarlo su quel passaggio della sua lettera. Né mai — data la natura dell’ufficio ricoperto dal dottor D’Ambrosio durante il mio mandato come durante il mandato del Presidente Ciampi — ebbi occasione di intrattenermi con lui su vicende del passato, relative ad anni nei quali non lo conoscevo ed esercitavo funzioni pubbliche (Presidente della Camera dei deputati) del tutto estranee a qualsiasi responsabilità di elaborazione e gestione di normative antimafia».
Giorgio Napolitano ricorda ai giudici di Palermo di avere pubblicato lui stesso la lettera del consigliere D’Ambrosio in una raccolta di interventi sulla giustizia: «Quella mia iniziativa, di certo non dovuta, corrispose a un intento di massima trasparenza nel documentare e onorare il travaglio umano e morale del Consigliere D’Ambrosio, provocato dalla diffusione, sulla stampa, di testi registrati (non si sa quanto correttamente e integralmente riprodotti) di conversazioni telefoniche con il senatore Mancino, intercettate dalla Procura di Palermo, e da cui vengono ricavati elementi di grave sospetto su comportamenti tenuti dal mio collaboratore». Per quelle telefonate, D’Ambrosio era stato anche convocato dai pm di Palermo, e lui stesso aveva parlato di “ipotesi” a proposito di alcune considerazioni fatte con Mancino.
Oggi, Napolitano ricorda “l’amarezza e lo sgomento” che trasparivano dalla lettera ricevuta da D’Ambrosio e «l’indignazione per interpretazioni (dello scambio di telefonate con il senatore Mancino) e più generali, arbitrarie insinuazioni che colpivano la costante linearità della condotta tenuta dal consigliere, in modo particolare rispetto all’impegno dello Stato nella lotta contro la mafia». Nella sua lettera, ripercorre quei giorni del giugno 2012 e spiega di aver cercato di rasserenare il suo consigliere giuridico in un incontro, quello del 19, a cui partecipò anche il segretario generale della presidenza della Repubblica: in quella occasione il presidente confermò “stima e fiducia” a D’Ambrosio e lo invitò a rimanere nel suo incarico.
Oggi, il capo dello Stato ribadisce che sarebbe “ben lieto” di deporre davanti ai giudici di Palermo se solo avesse spunti da offrire al processo, «anche indipendentemente — precisa — dalle riserve espresse dai miei predecessori Cossiga e Scalfaro sulla costituzionalità della norma dell’articolo 205 del codice di procedura penale », quella che prevede l’audizione del presidente della Repubblica. E richiama il comma 4 dell’articolo 495 del codice di procedura penale, che consente alla Corte di revocare l’assunzione di una testimonianza già disposta. Ma i pm di Palermo non sembrano disposti a rinunciare alla citazione di Napolitano: se ne discuterà alla prossima udienza, giovedì.


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