SINGER e SINGER. COME ISAAC E ISRAEL HANNO CAMBIATO IL FINALE DELLA STORIA

by Sergio Segio | 4 Novembre 2013 7:32

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Dunque i due fratelli Singer, il premio Nobel Isaac Bashevis e il grande Israel Joshua, i due autori yiddish che hanno raccontato il mondo scomparso e il destino degli ebrei degli shtetl e dell’est Europa senza mai far sconti al disastro che li aspettava e alle false illusioni di integrazione e assimilazione («niente salverà l’umanità», disse ancora I. B. in una delle interviste più recenti alla
Paris Review), coltivavano in sé un sogno di riscatto, redentivo, o almeno nella loro visione della sorte ebraica mantenevano un angolo di ambivalenza. Nel primo, Isaac, come era nella sua natura, la speranza mai urlata è messianica eppure straordinariamente terrena, nell’altro, Israel, sempre crudo, mai sentimentale, l’angolo di ottimismo diventava uno sberleffo. È forse questo il trait d’union che unisce le due sorprendenti perle scovate e pubblicate ora da Feltrinelli in un libro che si apre e si legge da due lati, da uno l’ultimo capitolo inedito de La famiglia Mushkat, dall’altro il racconto mai visto in italiano prima La stazione di Bakhmatch (per ambedue, traduzione dall’yiddish di Erri De Luca che li ha anche trovati e proposti all’editore).
La storia più stupefacente è senz’altro quella che riguarda Isaac Bashevis: la fine in yiddish de La famiglia Mushkat è infatti letteralmente il contrario di quella furiosamente inconsolabile in inglese che si ferma al capitolo precedente. E contiene in sé un impeto redentivo molto concreto: Israele. Il romanzo completato in yiddish nel 1945, un vero e proprio capolavoro che uscì a puntate sul giornale americano in yiddish Forverts, racconta nella versione finora nota, quella in inglese poi tradotta in tutte le lingue, la saga intensa e colorata di una famiglia di ebrei polacchi tesi tra l’ortodossia dei padri e l’illuminismo ebraico dei figli in cui scorrono nostalgia delle vecchie norme e insieme marxismo, sionismo, assimilazionismo… La trama, dove lentamente tutto si sgretola, termina all’inizio della catastrofe, nel 1939, sotto le bombe dei nazisti. Ogni cosa è persa, il protagonista Asa Heshel (che nel volume Feltrinelli troviamo col suo nome yiddish Ozer Heshel) una sorta di alter ego di Isaac, un intellettuale sempre confuso
tra riflessioni inutili ed esitazioni, un libertino continuamente attraversato dai dubbi e dal rimpianto per gli ormai abbandonati filatteri, incontra l’amico Hertz Yanovar tra le macerie. «Che fai in mezzo alla strada?» gli chiede, e Hertz: «Non ce la faccio più. Non ho più forze […] Il Messia arriverà presto». Asa lo guarda sbalordito: «Che cosa vuoi dire?». E lui: «La morte è il Messia. Questa è la verità».
Una conclusione straordinaria, la disperazione e la rivolta fatta parola, un gesto nichilista, esteticamente geniale e sicuramente perfetto per comunicare al lettore l’enormità cosmica di quel che poi era avvenuto, la Shoah.
Ma ecco invece la fine ritrovata, quella in yiddish, il capitolo tolto, poco più di venti pagine, troppo poche per credere che sia stata eliminata, come ipotizza Erri De Luca, perché il romanzo era già troppo poderoso, e poi una buona casa editrice non taglia mai le ultime pagine. Asa continua a vagare tra le rovine e si chiede come sia possibile che Dio sia anche il male, per rispondersi alla fine che no, Dio è un combattente, che ci ha dato il libero arbitrio, che ha creato anche il male per rendere possibile la libera scelta del bene… Ma, ecco, inattesa, Isaac Singer descrive tutta un’altra scena: a un centinaio di chilometri da Varsavia, in un bosco, in tanti boschi, ci sono dei ragazzi fuggiti da ogni shtetl che vogliono superare il fronte, passare per la Romania o la Russia, pionieri delle organizzazioni giovanili ebraiche che hanno un solo scopo: arrivare in Israele. La vera fine, la fine rivolta al “noi” di Singer, agli ebrei, dice di alzarsi, di combattere: «Alzatevi e niente timore. Sta dalla vostra parte l’ultima vittoria. Per voi verrà il messia».
Stupefacente. Isaac Singer curava le traduzioni personalmente, in maniera ossessiva, le cambiava. Non può essere un caso se nel 1950, Israele è appena nato, ha tolto quest’ultima fine: la totale ambivalenza di I. B. Singer, in tutto, nella religione, la politica, la vita amorosa, si mostra ancora una volta, in lui evidentemente stavano tutte e due le conclusioni, da un lato ce n’era una esplosiva che doveva annichilire il lettore goy, dall’altro una — forse troppo sentimentale e ingenua per un pubblico non abbastanza coinvolto? meno ad effetto? che avrebbe suscitato troppi scetticismi o perfino contrarietà? — che spingeva gli ebrei a guardare con coraggio il futuro, verso Gerusalemme. Era doppio? Sì, Isaac Bashevis lo era, non teneva tre donne in tre case diverse?
Poi c’è il bel racconto di Israel Joshua Singer. Anche questo contiene una sorpresa. Israel Joshua Singer da giovane aveva simpatizzato per la Rivoluzione russa, e nel 1918 era andato a guardarla da vicino, a partecipare alla nascita di quella che sperava sarebbe stata una nuova era per gli ebrei dell’Est Europa. Non gli piacque, vide scorrere troppo sangue e troppo odio antisemita. Mandò delle corrispondenze a Varsavia. Quando due anni dopo tornò, trovò molta ostilità nel suo ambiente di un tempo. Fu anche per questo che nel 1934 partì per New York.
La stazione di Backmatch narra il viaggio caotico che un ebreo polacco nel 1919 si trova ad affrontare per sfuggire a eserciti e bande contrapposte. Molti lo guardano con sospetto e antipatia, ma è mentre uno dei suoi treni superaffollati viene fermato a Backmatch per un’ispezione che arriva un commissario del popolo molto speciale, tutto vestito in pelle, con un’aria sicura di sé, baldanzoso, con quell’erre moscia tipica del russo ebraico. Un ebreo dunque, dagli occhi neri e le sopracciglia folte e unite insieme. La gente è già maldisposta. Quando poi il russo dalla stella rossa vuol obbligare il carro dei gloriosi marinai della Rivoluzione, degli energumeni armati fino ai denti, a farsi perquisire, e quelli incitano il resto degli astanti a dar contro al «maledetto ebreo», ai commissari ebrei che «bevono il sangue rivoluzionario dei figli della Russia», ci aspetteremmo il peggio. E invece…. invece, lo stesso Singer secondo cui tutto è sempre andato a finire con le teste degli ebrei che rotolano (come ha scritto mille volte e anche nel suo splendido I fratelli Ashkenazi) si prende una rivincita. Secondo fratello, secondo finale a sorpresa.

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