by Sergio Segio | 7 Novembre 2013 7:25
Ma il punto decisivo, quello su cui si consumerà la sfida tra l’ala governativa di Angelino Alfano e i lealisti e falchi berlusconiani, lo stesso che potrebbe ridisegnare la storia del centrodestra italiano, è al punto sei. Nelle righe in cui si legge che «disattendere le istanze di stabilità» — e cioè staccare la spina al governo anche in caso di decadenza di Silvio Berlusconi — significherebbe «tradire l’Italia, marginalizzare il centrodestra e allontanare la prospettiva di governo del Paese a tutto vantaggio della sinistra».
Il testo è stato confezionato nella notte tra martedì e ieri nella riunione degli Innovatori andata in scena a Palazzo Marini, un edificio della Camera dei deputati, alla quale hanno partecipato anche gli altri ministri del Pdl, da Gaetano Quagliariello a Nunzia De Girolamo. Probabilmente sarà limato, forse leggermente corretto, ma la sostanza rimarrà quella. Chi stacca la spina al governo «tradisce l’Italia». Tatticamente, rispetto al documento della presidenza del partito su cui Raffaele Fitto e Denis Verdini stanno già raccogliendo le firme, «non dovrà essere visto come alternativo», s’è premurato di specificare Alfano durante la riunione. Nel senso che «anche chi ha già sottoscritto quello può firmare il nostro». Fuori dalle liturgie della politica, però, rimane la realtà. Tutti i componenti del consiglio nazionale del Pdl che firmeranno la mozione degli innovatori, di fatto, si associano alla richiesta di tenere in vita il governo Letta anche dopo il voto sulla decadenza di Berlusconi. E anche a quella di ridisegnare l’ossatura della nuova Forza Italia a cominciare non da uno, ma da due coordinatori nazionali (uno per corrente). Altrimenti, è l’inconfessabile spettro che anche l’altra notte sarebbe stato evocato, la scissione arriverebbe a un passo.
Per capire quanti degli ottocento membri del consiglio nazionale del partito potrebbero firmare il documento di Alfano e dei ministri, però, bisogna fare un altro passo indietro. A lunedì sera. Prima di varcare il cancello di Arcore per l’ennesimo faccia a faccia con Berlusconi, il vicepremier sente Maurizio Lupi, Gaetano Quagliariello e Roberto Formigoni. La base di partenza, e cioè il numero di firme potenziali che sarebbero «già sicure», sarebbe fissata a «312». A queste andrebbero aggiunte «altre 90», archiviate alla voce «probabili». È l’ultima stima prima che l’ennesimo tentativo di armistizio col Cavaliere naufraghi sotto il forcing dei lealisti e dei falchi, che continuano a raccogliere le loro adesioni. Martedì notte la storia cambia. La riunione di Palazzo Marini porta al documento in cui, oltre al sostegno a oltranza al governo, viene inserito anche un principio sui meccanismi di democrazia interni del nuovo partito. Che rimanda — testualmente — «all’introduzione di criteri di meritocrazia, di democraticità, di libertà delle opinioni e di dibattito». Il tutto pronto perché, da oggi, la raccolta di firme possa partire.
Il vicepremier e i suoi sentono di avere la maggioranza dei consiglieri nazionali di almeno sei Regioni. In Lombardia, la tenaglia ciellina del tandem Lupi-Formigoni, unita alla rete del potente senatore ex socialista Ciccio Colucci, ha già prodotto decine di adesioni. Lo stesso vale per il Piemonte, dove con gli innovatori sono schierati Enrico Costa, l’ex governatore Enzo Ghigo e l’europarlamentare Vito Bonsignore. In vantaggio anche in Abruzzo e Basilicata, l’esercito di Alfano ha la maggioranza bulgara dei delegati della Sicilia, dove resistono di fatto soltanto Saverio Romano e Stefania Prestigiacomo. E anche di quelli della Calabria, dove il vicepremier e i ministri possono contare sulle firme portate in dote dal governatore Giuseppe Scopelliti e del senatore cosentino Antonio Gentile, che anni fa ebbe il suo quarto d’ora di celebrità nazionale per aver avanzato la candidatura di Silvio Berlusconi a premio Nobel per la Pace (adesso, più modestamente, lo definisce «come il Fernet Branca, un patrimonio di tutti»). Non essendoci il criterio dei «grandi elettori», ovviamente, il computo regionale conta poco. Conta però che metà delle Regioni che a sorpresa alle ultime elezioni hanno fermato la corsa del centrosinistra verso la maggioranza al Senato, e cioè Sicilia e Calabria, stiano con i governisti. Le altre due, Puglia e Campania, hanno maggioranza lealiste. Ma la partita è soltanto all’inizio. Anzi, più precisamente, comincia oggi.
Tommaso Labate
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