by Sergio Segio | 21 Novembre 2013 10:13
Cominciamo, allora, dall’Irlanda che il prossimo 15 dicembre centrerà un obiettivo importante: era stato il secondo Paese a chiedere l’aiuto esterno e sarà il primo a uscire dal programma di salvataggio. Se c’è un caso che dimostra come l’austerità possa generare ricadute virtuose lo troviamo in Irlanda.
Stiamo parlando di un Paese diventato ricco in un arco di tempo tutto sommato breve e che di conseguenza aveva ancora una risorsa di elasticità sociale rivelatasi decisiva per attutire psicologicamente i colpi del ridimensionamento e per trovare la forza di ripartire. Con una certa enfasi il premier Enda Kenny ha sottolineato tutto ciò lodando «il coraggio del popolo irlandese» e avvalorando così l’idea che il risanamento è avvenuto in virtù di una forte sintonia tra politica e Paese reale. Dimostrata, peraltro, dall’ampia collaborazione tra le parti sociali che ha permesso di programmare una riduzione del costo del lavoro unitario che a fine 2015 varrà il 15%.
Se era stato lo scoppio della bolla immobiliare a mandare ko «la tigre celtica» il percorso di risanamento è stato drastico e a largo raggio: sette manovre finanziarie dal 2008 ad oggi costate agli irlandesi tra tagli di spesa pubblica e nuove tasse qualcosa come 30 miliardi. Il deficit che era balzato sopra il 10% nel 2010, è sceso ora al 7,3% e dovrebbe rientrare sotto quota 3% nel 2015. La crescita del Pil che nell’anno in corso si fermerà a +0,2% dovrebbe raggiungere il 2% già nel 2014. Insomma ci sono tutti i presupposti per presentare Dublino come una storia di successo dovuta alle politiche rigoriste. Per non esagerare però nel trarre conclusioni valide ovunque sarà bene ricordare come l’Irlanda sia un Paese di 4,5 milioni di abitanti, anglofono e che ha giocato nei confronti delle multinazionali la carta di una politica spregiudicata di marketing territoriale capace di attirare Google, Twitter, Intel e PayPal.
Anche la Spagna è una storia a sé. L’ottimismo delle ultime settimane deriva dalla fine della recessione e dall’annuncio dell’uscita dal programma di sostegno di Bruxelles ma a rendere fiduciosi gli iberici è innanzitutto la stabilità politica testimoniata dal governo di Mariano Rajoy al potere dal 2011 e in grado di durare fino al termine della legislatura previsto nel 2015. Sono sufficienti questi elementi ad accomunare Madrid a Dublino come seconda storia di successo? Gli osservatori sono molti cauti e non solo perché i costi sociali dell’austerità sono stati pesantissimi causando la spaccatura della classe media e una disoccupazione da record.
Rajoy direttamente o indirettamente ha fatto buone cose, ha iniziato il risanamento bancario, ridotto il costo del lavoro, aumentato il peso delle esportazioni ma non ha certo cancellato alcuni dei mali dell’economia spagnola, disfunzioni che la accomunano alla nostra, anche se magari con un minor coefficiente di gravità.
La tassazione è elevata, i servizi restano arretrati, le famiglie sono comunque il salvagente di un sistema di welfare largamente imperfetto e, sull’altro piatto della bilancia, la Spagna non ha una manifattura specializzata come quella italiana. Se nel pre-crisi il driver dell’impetuoso sviluppo iberico era stato il settore immobiliare, non si vede nel dopo-crisi con che cosa lo si possa sostituire. Dicevamo della Grecia e degli incoraggianti segnali che vengono da Atene. Segnali che possono solo servire a dire che «eppur si muove». La cedola dei bond che aveva toccato l’incredibile cifra del 44,2% ora è calata al 7,93% e per la prima volta il Paese chiuderà l’esercizio con un avanzo primario, calcolato al netto del servizio al debito.
Il premier Antonis Samaras ne ha fatto, anche giustamente, motivo d’orgoglio parlando esplicitamente di «piccolo miracolo greco». Con termini più prosaici si può dire che l’economia ellenica ha comunque acceso il fuoco con la poca legna che aveva (agricoltura, turismo, porti) e ha deliberato una straordinaria svalutazione interna delle retribuzioni e delle prestazioni sociali. Il costo sociale pagato non ha eguali in Europa e si prospetta anche un costo politico visto il rafforzamento strutturale del consenso per le formazioni estreme.
In definitiva è molto difficile credere che sia possibile in un arco di tempo, anche relativamente breve, una ripartenza ellenica perché se non altro si faticherebbe a individuarne il motore. È più realistico pensare che solo una più complessiva crescita europea possa davvero cambiare le carte, l’impegno dei greci merita però rispetto.
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