SE ANCHE IL CARCERE DIVIDE I RICCHI DAI POVERI

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Secondo la perizia medica alla base della decisione del tribunale, infatti, proprio la sua condizione di persona abituata ai privilegi e agli agi l’ha resa particolarmente inadatta a sostenere l’esperienza carceraria. Secondo il perito, Giulia Ligresti soffriva “di un disturbo dell’adattamento, che è un evento stressante in modo più evidente per chi sia alla prima detenzione e in particolar modo per chi sia abituato a una vita particolarmente agiata, nella quale abbia avuto poche possibilità di formarsi in situazioni che possano, anche lontanamente, preparare alla condizione di restrizione della libertà e promiscuità correlate alla carcerazione».
Se ne deduce che invece chi non è abituato a una vita particolarmente agiata ha più facilità ad adattarsi alle condizioni di vita in carcere. Ne deriva, per seguire fino in fondo la logica di questo ragionamento, che l’istituzione carceraria deve essere particolarmente attenta ai bisogni e alle difficoltà di chi arriva in carcere da una vita di privilegi. Una attenzione che invece non è necessaria nei confronti dei poveri cristi che ci arrivano da vite modeste. Le “difficoltà di adattamento” di questi ultimi, e più generalmente il loro malessere, devono essere molto più vistosi per avere una possibilità di essere presi in considerazione. E non sempre ciò basta, proprio perché mancano loro le conoscenze, il know how, per mobilitare perizie e richiamare l’attenzione. Se poi, oltre a non essere agiate, presentano anche qualche tipo di vulnerabilità sociale (piccoli precedenti, tossicodipendenza, segnalazione ai servizi sociali e simili), le loro condizioni di malessere rischiano di essere sistematicamente ignorate o sottovalutate — qualche volta fino alla morte, come è avvenuto per il povero Cucchi: prima picchiato da chi lo aveva arrestato, poi lasciato morire dai medici per carenza di assistenza medica e per mancanza di cibo e di liquidi.
La ministra Cancellieri afferma di essere intervenuta per motivi umanitari e di averlo fatto in un altro centinaio di casi rimasti sconosciuti e riguardanti sconosciuti. Sarà sicuramente vero. Ma proprio per questo preoccupante, soprattutto se messo insieme alle argomentazioni del perito del caso Ligresti. Segnala che, nel girone infernale delle carceri italiane, la possibilità che i detenuti continuino a essere considerati esseri umani con diritto alla dignità e integrità personale e alla cura è affidato — come nell’ancien
régime — alla discrezionalità di chi ha il potere di accogliere una supplica o ai privilegi riconosciuti alla ricchezza e allo status sociale — incluso il privilegio di vedersi riconosciuto un plus di vulnerabilità e sofferenza. Quanti altri detenuti si trovano in condizioni di “disadattamento grave” alle condizioni carcerarie, ma non hanno modo di attirare l’attenzione della ministra, o non viene loro neppure in mente di poterlo fare, e non sono abbastanza agiati da sollecitare la comprensione di un perito? Se non affronta l’ineguale diritto all’umanità dei detenuti nelle carceri italiane, il diritto alla propria umanità rivendicato dalla ministra non è altro che la rivendicazione del diritto alla discrezionalità benevola in assenza di diritti e garanzie per tutti.


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