SCISSIONE L’irresistibile tentazione della divisione politica

by Sergio Segio | 21 Novembre 2013 9:16

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Ma la vera differenza, tra le scissioni consumate a Montecitorio e quella sperimentata nei laboratori del “progetto Manhattan” è che dalla scomposizione di una delle mille sigle della politica italiana non è mai nata una bomba atomica, ovvero un superpartito che radesse al suolo tutti gli altri, trasformando miracolosamente le amarezze private della rottura in una irresistibile forza della novità.
Perché è vero che senza scissione non c’è vita, è vero che la storia della politica è piena di felici scissioni – a cominciare da quella del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, che con la rottura tra bolscevichi e menscevichi fu all’origine della rivoluzione russa e dell’Unione Sovietica – eppure nel-l’Italia repubblicana le scissioni di partito sembrano aver preso in prestito l’omotetia dei frattali, quelle figure geometriche caratterizzate dal ripetersi sino all’infinito di uno stesso motivo su scala sempre più ridotta.
E col tempo, lo scissionismo che una volta era la malattia infantile del socialismo ha contagiato anche la destra postfascista e poi il centro dei moderati, fino al Nuovo Centro Destra appena battezzato da Angelino Alfano dopo la rottura con il “genitore A” della sua carriera politica, Silvio Berlusconi: un’altra scissione capace di generare nuova energia, se è vero che nei sondaggi la somma dei due nuovi partiti supera la percentuale dell’ormai sepolto Pdl.
È una storia che per quasi mezzo secolo – con l’unica eccezione della scissione socialdemocratica di Palazzo Barberini, che portò i socialdemocratici di Saragat nell’orbita del governo – non ha mai riguardato chi aveva le chiavi del Palazzo: nessuno si sognò mai di organizzare una scissione della Democrazia Cristiana, anche perché il suo segreto era quello di includere, assorbire, digerire e inglobare tutte le mille anime del moderatismo italiano.
La destra, al contrario, ha cosi
minciato presto a fare i conti con le scissioni. In principio fu Democrazia Nazionale, una corrente che si fece partito agli ordini del demiurgo Ernesto De Marzio. Non andò bene, e la scia di quel movimento finì dentro la capiente pancia della Dc. Ci vollero altri vent’anni, prima che a destra qualcuno osasse pensare a una nuova scissione, e questa volta dalla parte opposta: accadde nel 1995, quando Fini seppellì coraggiosamente il vecchio Msi e alla sua destra si staccò la costola degli irriducibili, guidati dall’orgoglio fascista di Pino
Rauti. Ma neanche il suo partitino, il “Movimento Sociale – Fiamma Tricolore” che riprendeva quasi interamente il nome e il simbolo appena archiviati da Alleanza Nazionale, ebbe la fortuna sperata (fermandosi allo 0,39 per cento alle politiche del 2001).
E siccome in politica, a differenza di quanto accade nella vita quotidiana, dalle sconfitte s’impara solo a sbagliare meglio, quando Rauti si accorse di essere minoranza anche nel suo nuovo partitino, fece un’altra scissione e fondò il Movimento Idea Sociale, di cui
sono poi perse le tracce. Gli altri, quelli rimasti sotto la Fiamma Tricolore, si coalizzarono con Alessandra Mussolini sotto una nuova bandiera, Alternativa Sociale. Poi, dopo aver tentato l’alleanza con Berlusconi, ma senza riuscire a ottenere neanche un parlamentare, si sono fusi con La Destra – a sua volta nata dalla seconda scissione di Alleanza Nazionale, quella guidata dall’ex portavoce di Fini, Francesco Storace – quindi si sono scissi un’altra volta. E ancora oggi, fedeli alla teoria per cui più si è piccoli più ci si avvicina all’essenza, tengono regolarmente congressi e comizi, saldamente attaccati alla loro particella subatomica di consensi: 0,1 per cento, l’ultima volta.
E gli altri, quelli di Alleanza Nazionale, che nel 1996 aveva il 15,6 per cento? Anche loro hanno continuato a scindersi. Dopo la fusione nel Pdl berlusconiano, Meloni e La Russa se ne sono andati per creare Fratelli d’Italia, mentre Fini aveva già rotto col Cavaliere («Che fai, mi cacci?») per fondare Futuro e Libertà (dovendo a sua volta subire una nuova scissione, quella di Urso e Ronchi).
Incurante dell’irresistibile forza centrifuga che spappola ogni sigla, anche e soprattutto al centro, gli ex democristiani continuano invece a inseguire il sogno del Grande Centro. E lo fanno, instancabilmente, continuando a separarsi. Dopo il Bing Bang scudocrociato del 1993 ci fu il divorzio tra il Ppi di Martinazzoli e il Ccd della coppia Casini-Mastella. Ma poi dal Ppi si staccò il Cdu. E dal Ccd si sganciò il Cdr. Per formare, con la benedizione di Cossiga, l’Unione Democratica per la Repubblica. Un’unione breve, prestissimo disintegrata da nuove scissioni: Buttiglione (Cdu) e D’Antoni (Democrazia Europea) se ne andarono con il Ccd di Casini per formare un’Unione di destra (quella “dei Democratici Cristiani”) che finì sotto il tetto della Casa delle Libertà, mentre Mastella portò la sua Unione (l’Udeur) dalla parte opposta. Poi anche D’Antoni passò con Prodi, e Casini ruppe con Berlusconi, galleggiando al centro fino a fondere la sua Udc nella Scelta Civica di Monti. Uscendone, l’altro ieri, con una nuova scissione. Per continuare a sognare, di scissione in scissione, il superpartito a prova di scissione.

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