by Sergio Segio | 15 Novembre 2013 14:51
Incontrando tuttavia una forte resistenza anche a sinistra dove la più grossa di tutte le balle, la promessa della piena occupazione, continua incredibilmente a godere di un vasto credito. Sentire parlare della insostituibile «dignità del lavoro» di fronte alle condizioni semiservili e ultraricattate in cui versa gran parte del lavoro precario e non poco lavoro dipendente fa accapponare la pelle. In realtà la proposta di legge dei 5Stelle, la più dettagliata delle tre, è più che altro una proposta di Reddito minimo garantito (Rmg) il quale a sua volta, ben lungi dall’assumere i caratteri universalistici e incondizionati del reddito di cittadinanza, costituisce una rivisitazione del sussidio di disoccupazione nell’epoca in cui quest’ultima ha assunto caratteri strutturali e permanenti. Cosicché l’erogazione del reddito è sottoposta a un complicato apparato di verifica e di controllo della «disponibilità all’impiego», che facilmente tende a trasformarsi in uno strumento di ricatto, quando non di coercizione. Incompatibile con quella salvaguardia della libertà e della dignità della persona stabilita dalla Carta di Nizza.
L’Rmg, in vigore in quasi tutti i paesi d’Europa, argina solo limitatamente l’imposizione di lavoro sottopagato e sovente a condizioni ben lontane anche dal più elastico concetto di «dignità». Basti pensare ai mini-job della competitiva Germania, molto simili a una istituzionalizzazione del lavoro nero e dei suoi tassi di sfruttamento, ritenuti indispensabili dalla confindustria tedesca per mantenere gli attuali livelli occupazionali.
Ma se perfino in Europa la questione di un reddito che garantisca a tutti i cittadini un livello di vita decente e libero da coazioni è lungi dall’aver trovato una risposta adeguata, in Italia siamo ancora, nel pieno di una crisi disastrosa, a sollevare la «questione morale» di un reddito svincolato dal lavoro che non c’è o non c’è in termini accettabili. E che quindi non può continuare a fungere da unità di misura dell’inclusione sociale, laddove ormai diverse forme di attività, estranee alle categorie classiche del lavoro, contribuiscono a mantenere e perfino a sviluppare quel legame sociale che i «mercati», compreso quello del lavoro, stanno finendo di devastare.
La questione del reddito di cittadinanza è la questione stessa delle società postindustriali, e ci impone un ripensamento complessivo del welfare, capace di contrastare quello smantellamento dello stato sociale che fa leva tanto sulla sua inefficienza burocratica quanto sull’insoddisfazione dei tanti che ne restano esclusi. E non è certo a partire dal sussidio elargito sotto il controllo di un ufficio di collocamento che questo ripensamento può prendere le mosse. Tuttavia il tema del reddito e di una redistribuzione delle risorse è posto. Si tratta di non fermarsi alle versioni minimaliste e inefficaci.
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