QUELLE FERITE APERTE LASCIATE DAL DATAGATE

by Sergio Segio | 14 Novembre 2013 10:46

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L’indignazione del Cancelliere Merkel e del presidente brasiliano Roussef si sommano all’imbarazzo dei governi alleati e delle opinioni pubbliche, come alla condanna che da ogni parte si leva con diversi toni di asprezza verso gli organi di sicurezza americani. A questi si aggiungono l’improvvida proposta del presidente del Parlamento europeo Schulz (candidato alla presidenza della Commissione di Bruxelles) di sospendere il grande negoziato transatlantico, lo spettacolo dei britannici coinvolti organicamente e sotto accusa in parlamento, i sogghigni di Putin e dei regimi autoritari che per una volta non sono oggetto di riprovazione in nome dei diritti umani, della democrazia e della trasparenza. I commentatori sono divisi tra gli indignati, i sostenitori dell’esigenza primaria di combattere il terrorismo e i cinici seguaci del Mozart di “Così fan tutte”. Accordi di reciproco rispetto per la sicurezza e la riservatezza — difficili da concepire e soprattutto verificare, ma non impossibili — si profilano all’orizzonte con l’impegno americano a contenere l’invadenza dei servizi, cominciata con Bush nell’angoscia delle Due Torri e dilagata poi senza controllo. Sarà però nella condotta politica di Washington che risiederà la chiave della ricostruita fiducia.
Gli impegni formali solenni che certo seguiranno, le rassicurazioni, il buon senso, l’abilità delle diplomazie e l’incalzare delle crisi in atto, economica, politica e di sicurezza, allontaneranno il Datagate dalle prime pagine poco per volta, ma la ferita all’ordito delle relazioni internazionali lascerà tracce. È vero che nessuno può onestamente scagliare l’evangelica prima pietra, ma la “cospirazione” tra i cinque Paesi anglofoni che hanno integrato i rispettivi servizi senza riguardo per alleanze militari e conclamata preferenzialità di rapporti politici con le altre democrazie occidentali con cui condividono valori e interessi resterà una ferita aperta. La fiducia, la vita insegna, è facile da distruggere quanto ardua da ricostruire.
L’influenza americana nel mondo era già messa a dura prova dalla crisi finanziaria, dal blocco del bilancio e dell’indebitamento — lo shutdown e il default per ora rinviati dopo polemiche umilianti — dalle esitazioni in Siria e nel Mediterraneo, dalle guerre perdute e dai loro drammatici seguiti in Iraq e Afghanistan, dall’infido Pakistan e dall’inquietudine nel Golfo con l’Arabia Saudita sospettosa della Casa Bianca, non meno di quanto non sia Israele, dopo l’apertura all’Iran, un successo di Washington che rischia nel breve periodo di creare altra turbolenza. Il Cremlino guadagna in influenza e Pechino prosegue quieta nella politica di affermazione e di penetrazione.
Proprio quando l’economia americana segna una cauta ripresa, i Tea Party sembrano perdere l’abbrivio e si delineano i programmi sociali di Obama sorretti dall’indipendenza energetica vicina, l’uragano colpisce l’immagine e la credibilità degli Stati Uniti all’estero, oggi ancor più strumento essenziale della politica di un Paese che aspira alla guida della stabilità globale, principio organizzatore di uno scenario internazionale che non privilegia più la sola potenza militare, che oggi non è sufficiente. Finiti l’equilibrio strategico del terrore con Mosca e il decennio del predominio unilaterale, l’America ha compreso che superpotenza non significa onnipotenza e che gli armamenti nucleari strategici non assicurano più il controllo di un mondo percorso da crisi locali asimmetriche.
Il dilemma che si presenta oggi alla Casa Bianca si colloca quindi tra il cauto disimpegno esterno nell’attesa che la crisi dello tsunami si smorzi poco a poco, oppure l’adozione di una politica estera attiva che ricostruisca il senso della missione della “nazione indispensabile”, come diceva Madeleine Albright.
Nel primo caso, il vuoto politico aggraverebbe il disordine internazionale e rafforzerebbe negli Stati Uniti il neo-isolazionismo populista che serpeggia. La scelta di una politica attiva comporta invece una strategia di stabilità globale sorretta dalle idee politiche e dai valori storici che Washington condivide con le democrazie occidentali. Per convincerne le altre nazioni servirà, però, oltre al ristabilimento dell’equilibrio interno e alla pacificazione degli animi, una politica estera che escluda nei fatti i ricorrenti sospetti di egemonismo e ricostruisca la ritrovata fiducia nella rete di alleanze, prima tra queste il rapporto euroatlantico, e rafforzi le organizzazioni internazionali politiche e finanziarie su cui la tradizione americana aveva fondato la propria filosofia sino dalla Guerra mondiale.

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