Quell’amicizia finita male tra Mussolini e Roosevelt

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Ci fu un tempo in cui i rapporti tra Mussolini e Roosevelt furono idilliaci. «Mio caro presidente», scriveva Benito Mussolini a Franklin Delano Roosevelt il 24 aprile del 1933, «in risposta alla vostra richiesta di avere uno scambio di idee sui problemi economici e politici del mondo ai quali gli Stati Uniti e l’Italia sono reciprocamente interessati, ho chiesto al ministro delle Finanze on. Guido Jung di venire a Washington come mio rappresentante. Egli vi dirà con quanto grande interesse io stia seguendo il lavoro del governo degli Stati Uniti, per la soluzione delle attuali difficoltà del mondo, che soltanto attraverso la mutua collaborazione e la buona volontà delle nazioni possono essere risolte». Poi il Duce aggiungeva: «È con grande piacere che ho affidato al signor Jung la riproduzione dei codici di Virgilio e di Orazio che sono conservati alla Biblioteca “Laurenziana” di Firenze… Ho scelto questi due autori non soltanto perché le loro opere poetiche (nell’originale, per un lapsus, aveva scritto “politiche”, ndr) sono il più grande lascito letterario di Roma, ma anche perché sono esempi di quella nobiltà dello spirito e umana comprensione che credo essere le due qualità fondamentali del carattere americano». Questa più che cordiale lettera del dittatore fascista al presidente americano, scritta appena otto anni prima che i due si trovassero su fronti opposti nella Seconda guerra mondiale, ha attirato l’attenzione di Lucio Villari, il quale le ha dedicato un’interessante riflessione nel libro America amara. Storie e miti a stelle e strisce , pubblicato in questi giorni dalla Salerno editrice.
Il libro prende le mosse dalla stima reciproca tra l’illuminista napoletano Gaetano Filangieri e Benjamin Franklin; dall’ammirazione di Hermann Melville per Giacomo Leopardi («introdotto» in America dal poeta bostoniano Henry T. Tuckerman) e da quella di Edgar Allan Poe per Alessandro Manzoni. E dall’impresa fondamentale che fu la traduzione della Divina Commedia ad opera di Henry W. Longfellow. Un intreccio intellettuale che, dopo due secoli, già nella prima metà Novecento produce in Italia (nell’Italia fascista) un interesse allargato allorché viene dato alle stampe Che ve ne sembra dell’America? (Mondadori, 1940) di William Saroyan, mentre Elio Vittorini con Cesare Pavese prepara l’antologia Americana (Bompiani, 1941). Ma, nota Villari, Giulio Einaudi aveva anticipato Pavese e Vittorini pubblicando già nel 1934, subito dopo aver inaugurato la sua casa editrice, Che cosa vuole l’America di Henry A. Wallace e L’America al bivio del giornalista Amerigo Ruggiero. Probabilmente, scrive Villari, queste pubblicazioni si dovevano a suo fratello, Mario Einaudi, che era andato a insegnare alla Harvard University.
Prima di loro, ad accorgersi di quanto importante stesse diventando l’America era stato Benito Mussolini, che aveva fortemente cercato l’incontro con Roosevelt. Mussolini apprezzava molto le corrispondenze di Ruggiero sulla «Stampa», di cui volle scrivere di persona (sul «Popolo d’Italia»): «Non si tratta di articoli di colore, né di panzane romanzesche; sono articoli redatti con chiarezza di vedute e onestà di ragguagli». Apprezzamento che fu anche più ampio nei confronti del libro di Wallace, sul quale Mussolini intervenne ancora una volta con un articolo di suo pugno nel quale elogiava l’opera di Roosevelt, ma — a prendere le distanze dall’editore — criticava l’introduzione di Mario Einaudi («una specie di glossa prolissa a un testo che è straordinariamente chiaro»).
Ma torniamo alla lettera di Mussolini a Roosevelt. Il 2 maggio 1933, il ministro Jung e la delegazione italiana sbarcarono a New York dal «Conte di Savoia»; il giorno successivo furono ricevuti alla Casa Bianca, recapitarono missiva e doni, poi discussero con Roosevelt in un clima di grande familiarità. Concordarono nel giudizio (assai trattenuto) su Adolf Hitler, giunto al potere poche settimane prima; ebbero identità di vedute sul fatto che Stati Uniti e Italia fossero in quel momento gli unici Paesi capitalistici al mondo che, sul terreno economico, sociale e politico, cercavano una «terza via». La Francia, ricorda Villari, «era ancora lontana dal Fronte popolare, i giovani laburisti inglesi erano inchiodati alle strategie e agli obblighi dell’impero, la Spagna, da poco repubblicana e democratica, era incerta sul da farsi». La scelta, avviata dall’Italia, dell’intervento dello Stato in economia e di una politica per la sicurezza sociale, scrive Villari, «non poteva quindi lasciare indifferenti i riformatori progressisti americani». Mussolini «ne era talmente convinto che si fece anche divulgatore, attraverso il lungo articolo (di cui si è detto, ndr) dedicato a un libro tradotto in italiano del ministro più di sinistra del governo Roosevelt, Henry Wallace, pieno di elogi e di apprezzamenti».
Il 7 luglio dello stesso 1933 Mussolini diede alle stampe per l’Universal Service (un’agenzia giornalistica americana) un altro articolo, Roosevelt e il sistema , dove, in riferimento al libro del presidente americano appena pubblicato negli Stati Uniti, Looking Forwards (e prontamente tradotto in italiano da Bompiani con il titolo Guardando al futuro ) esprimeva ammirazione per come l’uomo del New Deal aveva saputo liberarsi «dai dogmi del liberalismo economico». Secondo il Duce, molti si stavano domandando, in America e in Europa, «quanto “fascismo” ci sia nella dottrina e nella pratica del presidente americano». Una domanda cui «Mussolini e alcuni newdealisti cercheranno di dare una risposta in numerosi interventi pubblici e privati fino a tutto il 1934, quando l’impronta democratica di Roosevelt cominciò a dare un significato diverso all’orizzonte politico e ideale che si era aperto negli Stati Uniti». Ma durante quell’anno e mezzo Roosevelt credette che qualcosa potesse nascere da quell’intesa, tant’è che nel 1934 inviò in Italia un suo uomo di fiducia, Rexford Tugwell, affinché incontrasse Mussolini e studiasse da vicino le realizzazioni del fascismo.
Roosevelt e i suoi collaboratori (in particolare Tugwell e Raymond Moley), sostiene Villari, «erano alla ricerca di un metodo di intervento pubblico e di impegno dello Stato che, senza distruggere il carattere privato del capitalismo, ne colpisse la degenerazione e trasformasse il mercato capitalistico, asociale e incontrollato, in un sistema sottoposto ai principi di giustizia sociale e insieme di efficienza produttiva». Ciò detto, «anche il capo del fascismo italiano guardava al programma del New Deal con attenzione, sia per le iniziative concrete (le leggi, i codici, gli istituti messi immediatamente in atto dall’amministrazione americana), sia per lo spirito con cui Roosevelt sgomberava il terreno dai miti del liberalismo».
Il capo del fascismo — come ha ben messo in risalto, anni fa, Renzo De Felice in Mussolini il duce. Gli anni del consenso 1929-1936 (Einaudi) — aveva cominciato a inoltrarsi su questi temi molto tempo prima che Roosevelt andasse al potere. Anche se, ha poi precisato De Felice, «Mussolini non imboccò mai la via (sulla quale pure la parte più viva del fascismo lo avrebbe seguito con entusiasmo) di una vera e propria pianificazione degli interventi e programmazione degli obiettivi da realizzare». Il Duce, che pure «amava affrontare certi problemi come altrettante “battaglie” e attivizzare attorno ad essi tutto l’apparato della propaganda del regime», preferì invece «ricorrere a una serie di provvedimenti, anche assai significativi — si pensi alla costituzione dell’ Imi e dell’Iri — ma sostanzialmente episodici, spesso non ben coordinati e talvolta in contraddizione tra loro». Tanto «da dare l’impressione che essi fossero presi più in base a necessità via via dettate dall’urgere della crisi che secondo una consapevole strategia d’insieme».
E però la svolta ci fu. Il socialisteggiante «discorso dei diaframmi», tenuto a Napoli il 25 ottobre del 1931, ne è una prova. «Quanto tempo dovrà ancora passare», si domandava il Duce, «per convincerci che nell’apparato economico del mondo contemporaneo c’è qualcosa che si è incagliato e forse spezzato?». «Nella politica interna», proseguiva, «la parola d’ordine è questa: andare decisamente verso il popolo, realizzare concretamente la nostra civiltà economica, che è lontana dalle aberrazioni monopolistiche del bolscevismo, ma anche dalle insufficienze stradocumentate della economia liberale». E fin qui… Ma poi Mussolini entrava più in dettaglio: «Non abbiamo nulla da temere; le plutocrazie degli altri Paesi hanno troppe difficoltà in casa loro per occuparsi delle nostre questioni e dell’ulteriore sviluppo che vogliamo dare alla nostra rivoluzione… Se ci fossero dei diaframmi che volessero interrompere questa comunione diretta del regime con il popolo, diaframmi di interessi di gruppi e di singoli, noi, nel supremo interesse della nazione, li spezzeremo!» Quindi, in un crescendo, il capo del fascismo diceva: «La crisi mondiale che non è più soltanto economica, ma è ormai soprattutto spirituale e morale, non ci deve fermare in uno stato di abulia e di inerzia: tanto maggiori sono gli ostacoli, tanto più precisa e diretta deve essere la nostra volontà di superarli».
Nei giorni successivi, «Il Popolo di Roma» pubblicava ben quattro articoli di esegesi sul tema dei «diaframmi». Con accenni assai duri alle «classi abbienti», alla «molta, troppa gente» che «seguitava a vivere e ad agire come se il fascismo fosse quel tale difensore delle casseforti borghesi pel quale molti, più o meno in buona fede, lo presero nove anni fa, quando andò al potere». Di qui, proseguiva «Il Popolo di Roma», «lo scatto del Duce a Napoli quando ha alluso a diaframmi opachi interponentisi ostinatamente tra il fascismo e il popolo, e ha imperiosamente gridato che, se occorre, si spezzeranno, si abbatteranno senza pietà… Il tempo delle grandi decisioni è venuto; la fine del capitalismo è, forse, ancor lontana; ma, certo, la fine del liberalismo economico non è più da venire perché è già avvenuta. Esso è morto nelle anime prima che nella realtà sociale».
In seguito «Il Popolo di Roma» indicava per nome i «diaframmi da spezzare»: le società elettriche, le banche e le industrie, «che pretendevano di vivere sulla pelle degli operai e degli impiegati chiedendo ad essi continue riduzioni di stipendio»; i padroni di abitazioni e le società edilizie, «che preferiscono tenere vuote le loro case piuttosto che fittarle a prezzi proporzionati ai minori guadagni di tutti».
Quando nel 1933 verrà creato l’Iri, la rivista di Giuseppe Bottai, «Critica fascista» accoglierà la fondazione dell’Istituto come un concreto passo sulla via di un’«economia programmata» e pubblicherà una serie di articoli di Federico Maria Pacces in favore di un vero e proprio «piano economico corporativo». Articoli che saranno accusati nell’ambito del conservatorismo fascista (in particolare dal mensile «Vita nova» di Bologna) di «estremismo», pulsioni da «sindacalismo russo», aspirazione a un «socialismo di Stato».
Il 1933 è in effetti un anno fondamentale per comprendere fino a che punto Mussolini vedesse in Roosevelt un punto di riferimento. Clamorosa è la circostanza che il 7 marzo «Il Popolo d’Italia» (direttamente ispirato da Mussolini) dedicasse il suo fondo non alle elezioni tedesche, che avevano consacrato Adolf Hitler, bensì ad una dichiarazione di Roosevelt dalla quale si poteva arguire, a detta del giornale, che il nuovo presidente degli Stati Uniti intendeva seguire una linea d’azione simile a quella di Mussolini. E Roosevelt — come hanno notato John Patrick Diggins in L’America, Mussolini e il fascismo (Laterza) e Arthur Meier Schlesinger in L’età di Roosevelt (Il Mulino) — prestò attenzione a quelle espressioni di riguardo provenienti dall’Italia. Disse che Mussolini era «un vero galantuomo», di essere «molto interessato e profondamente impressionato da ciò che egli ha realizzato e dal suo comprovato onesto sforzo di rinnovare l’Italia e di cercare di impedire seri sconvolgimenti in Europa».
E non si trattava solo degli Stati Uniti. In Inghilterra, il 17 gennaio del 1933, il leader liberale David Lloyd George concesse un’intervista al «Manchester Guardian», nella quale affermò che lo Stato corporativo mussoliniano era «la più grande riforma sociale dell’epoca moderna». Qualche tempo dopo, il 22 giugno 1933, Dino Grandi scrisse a Mussolini: «Ho incontrato ieri sera, ad un pranzo a corte, Lloyd George… Mi è venuto incontro per dirmi che desiderava io ti ripetessi ancora una volta le espressioni della sua sincera ammirazione». Alla conversazione, precisava Grandi, avevano assistito il principe Giorgio, figlio del re, l’ambasciatore di Polonia, il ministro dell’Interno Sir John Gilmour e «quattro o cinque membri della Camera dei Lord».
Lloyd George — riferisce Grandi — gli aveva detto: «O il mondo si decide a seguire Mussolini, ovvero il mondo è perduto. Non c’è che il vostro capo il quale abbia delle idee chiare, e che cammini sicuro sulla strada segnata dalla sua volontà… Non vi sembra strano che un vecchio liberale come me pensi e dica cose del genere di colui che è il giustiziere del liberalismo?». Grandi gli avrebbe risposto che non era affatto strano che Lloyd George dicesse quel tipo di cose, era strano semmai che egli continuasse «a credersi un vecchio liberale»: nulla era infatti «più errato, nell’attuale tempo rivoluzionario che l’intero mondo attraversa, di classificare il proprio pensiero servendosi di nomenclature politiche morte e trapassate». A suo dire si doveva «avere il coraggio, se si voleva essere compresi e seguiti, non soltanto di pensare in senso moderno, ma altresì di usare il dizionario politico vivente e aggiornato alla nostra generazione». Al che Lloyd George gli avrebbe risposto: «Forse avete ragione, ma i vecchi hanno i loro innocenti e tenaci pudori; ad agni modo il liberalismo è morto, ma io ancora no».
Sempre in Gran Bretagna, il 16 febbraio del 1933, il capo dell’opposizione laburista George Landsbury rilasciava un’altra clamorosa intervista, stavolta al «News Chronicle». Per affrontare il problema della disoccupazione, sosteneva, «io non riesco a vedere che due metodi, e questi sono già stati indicati da Mussolini: lavori pubblici e sussidi. A mio avviso vi è una enorme quantità di opere che possono essere compiute nel campo dell’agricoltura e della bonifica, nelle strade, nelle comunicazioni e nelle miniere… Se io fossi dittatore, io farei come Mussolini: sceglierei cioè gli uomini che sappiano tracciare dei piani di opere pubbliche effettivamente utili al Paese e continuerei risolutamente sulla mia strada fino a portare una completa riorganizzazione nella vita nazionale».
Un esempio «assai significativo di questo interesse» è offerto, secondo De Felice, dal numero speciale sul corporativismo italiano pubblicato nel 1934 da «Fortune». Gli articoli pubblicati su «Fortune» offrono «infatti bene la possibilità di rendersi conto sia dei caratteri e dei limiti dell’interesse americano per il corporativismo, sia delle riserve che l’andamento dell’economia italiana suscitavano oltre oceano, sia infine di cosa intendessero coloro che affermavano che “lo Stato corporativo sta a Mussolini come il New Deal sta a Roosevelt”».
Il 18 febbraio del 1933 il futuro primo ministro Winston Churchill, nel venticinquesimo anniversario della Lega antisocialista britannica, pronunciò un discorso destinato ad essergli rinfacciato, in seguito, più di una volta: «Il genio romano impersonato in Mussolini, il più grande legislatore vivente, ha mostrato a molte nazioni come si può resistere all’incalzare del socialismo e ha indicato la strada che una nazione può seguire quando sia coraggiosamente condotta. Col regime fascista, Mussolini ha stabilito un centro di orientamento dal quale i Paesi che sono impegnati nella lotta corpo a corpo con il socialismo non devono esitare ad essere guidati».
Di lì il discorso anglo-italiano scivolò addirittura verso un larvato apprezzamento — ovvio per Mussolini, assai meno per inglesi e americani — nei confronti dei sistemi dittatoriali. Il 28 giugno del 1933 Mussolini scrisse sul «Popolo d’Italia»: «Il Congresso americano ha concesso i pieni poteri a Roosevelt. Si tratta veramente di pieni, anzi di pienissimi poteri. Quella del presidente è una dittatura … Il curioso, in tutto ciò, è che gli stessi esaltatori del regime democratico trovano che l’attuale sviluppo assolutamente dittatoriale della politica americana è nell’ordine fatale delle cose… Non è fascismo; è, per ora, semplice negazione del sistema, non soltanto politico… Milioni di uomini si domandano: a che servono gli immortali principi, se nelle ore di crisi essi appaiono e sono insufficienti?».
Nel mesi di luglio di quello stesso 1933, a Londra lord Arthur Ponsonby, sottosegretario agli Esteri del primo governo presieduto da James Ramsay MacDonald e leader laburista alla Camera dei Lord, scriveva sulla «Contemporary Review»: «Noi rifuggiamo dall’idea di una dittatura, e del resto non abbiamo nessuno che potrebbe occupare l’ufficio di dittatore. Ma segretamente noi invidiamo i metodi della dittatura quando vediamo come energicamente essa funziona altrove». I Paesi «retti a dittatura forse non fanno quello che noi vogliamo, ma agiscono, si muovono, si trasformano, tentano esperimenti nuovi, mentre noi siamo affondati in un pantano e attaccati a un sistema antiquato, che, ove fallisca, può portarci al disastro. C’è voluto un anno a ricostruire una gran parte di Roma, e noi abbiamo impiegato tre anni a non costruire due nuovi ponti a Londra». È in questo contesto, ha scritto De Felice, che si devono collocare «la personale fortuna, il prestigio, il successo, l’interesse, la curiosità» di cui Mussolini godette in quegli anni sia negli Stati Uniti che in Inghilterra. Una «fortuna» che, nella prima metà degli anni Trenta, «non ebbe probabilmente uguali».
Villari trae conferma di questo assunto da alcuni brani dei diari di Tugwell, il quale nel 1934 fece, per conto di Roosevelt, un viaggio in Europa e fece sosta in Italia. «Trovo che l’Italia stia facendo molte cose che mi sembrano necessarie», scrive Tugwell il 20 ottobre del 1934, «e, a ogni modo, si sta ricostruendo materialmente in maniera sistematica. Qui la brava gente si preoccupa del bilancio, eccetera. Certo, Mussolini ha gli stessi oppositori di F.D. Roosevelt. Ma ha il controllo della stampa, per cui non possono urlargli menzogne ogni giorno. E ha una nazione compatta e disciplinata, anche se priva di risorse. Almeno in superficie, sembra aver fatto enormi progressi. Ma ho qualche domanda da fargli che potrebbe imbarazzarlo, o forse no. Mi dicono che ha il senso dell’umorismo e un modo di fare diretto, sempre che si riesca a restare completamente soli con lui».
Poi, il 22 ottobre 1934, Tugwell, che non è certo uno sprovveduto, torna sull’argomento di ciò che non lo convince. «La certezza matematica che tutto quello che scrivo e imposto da qui sarà quantomeno letto m’impedisce di buttar giù alcune notazioni che mi piacerebbe registrare. Negli ultimi due giorni ho visitato le paludi Pontine in via di bonifica, dove non ho riscontrato nulla di qualche rilievo o interesse dal punto di vista dell’organizzazione sociale». Ma Mussolini lo convince, eccome. «Di fatto l’altro giorno, quando sono andato con Long a una parata militare, lui (il Duce, ndr) mi stava proprio di fronte, sul suo cavallo bianco. È stata un’esperienza sconcertante, in cui rientravano elementi che colpivano la sensibilità americana. La sua forza e l’intelligenza sono evidenti, come anche l’efficienza dell’amministrazione italiana. È il più pulito, il più lineare, il più efficiente campione di macchina sociale che abbia mai visto. Mi rende invidioso». Addirittura.
Trascorrono nove anni da quei «giorni dell’invidia» ed ecco come Villari descrive il cambiamento attraverso le parole dello scrittore italo-americano Gay Talese, a proposito del giorno in cui la notizia della caduta di Mussolini giunse in America. «Nel luglio 1943 quando i tifosi americani che assistevano a una partita di baseball appresero dall’impianto radiofonico dello Yankee Stadium che Mussolini era stato destituito, si alzarono tutti in piedi con un applauso. Quando la notizia fu comunicata al pubblico che era presente nello studio della Nbc al Rockefeller Center di New York, interrompendo un concerto di musiche verdiane diretto da Arturo Toscanini, anche lì la gente si alzò in piedi applaudendo. Il giorno dopo il “Times” disse che il maestro “si era preso la testa tra le mani e aveva alzato gli occhi al cielo, come se le sue preghiere fossero state finalmente esaudite”. Il sindaco di New York, Fiorello La Guardia, commentò l’annuncio definendo Mussolini “il traditore d’Italia”. Il “Washington Post” lo chiamò “imperatore di segatura”, il “New York Herald Tribune” salutò la fine dell’“egoismo napoleonico” di Mussolini e il “Christian Science Monitor” applaudì la fine delle sue “smargiassate dal balcone”».
Certo, c’era stato di mezzo un capovolgimento di alleanze e una guerra. Ma nella distanza tra le parole di Tugwell e quelle di Talese c’è nascosta la grande occasione perduta dall’Italia negli anni Trenta. Per un momento (abbastanza lungo, a dire il vero) una felice intuizione di Mussolini aveva portato il nostro Paese a un passo da un’alleanza strategica con il mondo anglosassone. Un’alleanza che, ad ogni evidenza, avrebbe cambiato il corso della storia. Ma l’uomo che aveva avuto quell’intuizione, purtroppo non fu poi capace di dare ad essa una prospettiva. Purtroppo per lui. Ma, in un certo senso, purtroppo anche per noi.


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