Quei due amici-nemici che si contendono il mondo

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WASHINGTON. Attorno a tre inutili isolotti vulcanici, poco più che scogli, affiorati nel nulla del Mar della Cina Orientale va in scena il nuovo atto del dramma che dominerà il futuro del mondo: il duello per la supremazia globale tra la superpotenza di ieri e la superpotenza di domani, Usa e Cina.
Se di questi tre scogli importa pochissimo a tutti — erano addirittura proprietà privata fino al recente acquisto da parte del governo giapponese — anche il mini-arcipelago delle Senkaku, come le chiama Tokyo, o Diaoyu, secondo Pechino che le considera sue, hanno un valore simbolico. Il duello a distanza fra i B52 americani che le hanno sorvolate e la portaerei cinese Liaoning che le sta raggiungendo a tutta forza è altissimo. E tutto ciò che è simbolico, in Asia è sempre sostanziale.
Da quando, liquidati gli orpelli del maoismo e imboccata la via della “dittatura di sviluppo” a ogni costo umano e sociale, la Cina è divenuta la fabbrica dei consumi americani e la sua principale finanziatrice, l’assurdità del rapporto fra cinesi e americani si fa progressivamente più vistosa.
Con il proprio immenso surplus commerciale, la Cina finanzia non soltanto l’economia Usa, ma quelle armi, quelle flotte navali e aeree che ancora consentono a Washington di allungare la propria ombra sull’Asia Orientale. Senza il credito misurato in migliaia di miliardi che Pechino fornisce agli Usa perchè acquisti i prodotti “Made in China”, il Pentagono non avrebbe i soldi necessari per far volare i B52 sopra le isole contese e manovrare le 70 unità navali della Settima Flotta nel Pacifico.
Dentro questo paradosso degli “amici-nemici”, dei due grandi soci che collaborano alla spartizione economica e finanziaria del mondo nel nome formale di ideologie contrapposte, c’è una rivalità che finora nessun vertice, comunicato, accordo commerciale o acquisto di buoni del Tesoro americani ha potuto risolvere. È una lunga storia che nell’età contemporanea, dopo l’uscita della Cina rivoluzionaria dal protettorato e dal colonialismo delle potenze europee e del Giappone invasore, esplode in una mattina gelida del 25 ottobre 1950, quando 200mila soldati regolari cinesi sorpresero le truppe americane e sud coreane che aveva attraversato il 38esimo parallelo e preso la capitale del Nord, Pyongyang. Nel massacro e nella Caporetto delle unità americane in fuga, per la prima e finora ultima volta dopo Nagasaki, l’alto comando Usa propose di contrattaccare sganciando bombe atomiche sulle forze di Mao.
Fortunatamente, e saggiamente, il Presidente Harry Truman ebbe il coraggio di licenziare in tronco il generalissimo McArthur e accettare, dopo anni di battaglie inconcludenti e sanguinose, il compromesso fra Nord e Sud che ancora regge 60 anni dopo.
Mai più “l’aquila e il drago” sarebbero arrivati a uno scontro militare diretto e a un passo da una guerra nucleare che avrebbe risucchiato certamente l’Unione Sovietica, non disponendo di bombe atomiche nè i cinesi nè i coreani.
Ma sarebbero state necessarie rivoluzioni e controrivoluzioni culturali dentro la Repubblica Popolare, e il superamento negli Usa della psicosi del “pericolo giallo” — diretto erede del “pericolo rosso” — perchè si arrivasse al semplice riconoscimento diplomatico della più popolosa nazione del pianeta e la sua ammissione all’Onu, nel 1971.
Riconoscimento diplomatico che non condusse e ancora non conduce a un rapporto d’amicizia: ci sono troppe radici, e troppo profonde, nell’ostilità secolare fra Oriente e Occidente e nella inconfessabile, reciproca diffidenza — quando non disprezzo — razziale. La relazioni fra Washington e Pechino avrebbero continuato, e continuano, a oscillare fra gli interessi di un matrimonio costruito sul profitto e l’antagonismo di una opposizione che ha nel controllo del Pacifico occidentale il quadrante immenso ed esplosivo del Risiko.
Persino la presidenza di George W. Bush, pure figlio del primo americano inviato a Pechino come ambasciatore di fatto, George Senior, si sarebbe aperta con un incidente che ricorda molto quanto sta avvenendo attorno agli scogli delle Senkaku/Diaoyu. La collisione fra un quadrimotore spia inviato dal Pentagono nello spazio aereo cinese e un intercettore dell’aviazione cinese, che precipitò uccidendo il pilota, fu un gesto di sfida che Bush aveva promesso in campagna elettorale e che lo costrinse all’umiliazione di scuse formali al governo della Repubblica Popolare.
Fino a quando gli interessi impediranno che questo strano matrimonio degeneri in un divorzio violento, eventi come quello del 2001 o questo di oggi resteranno parte di quel kabuki militare nel quale i due grandi attori recitano soprattutto a beneficio del principale e cruciale spettatore: il Giappone. Ma il tempo non lavora a favore di Washington e del Pentagono. Il costo dell’“ombrello” aereo-navale americano nel Pacifico, dalle truppe ancora sul 38esimo parallelo coreano alle basi in Giappone, sta diventando insostenibile. La crescita delle spese cinesi nel riarmo, che ha prodotto quella prima portaerei oggi in navigazione verso le isole contese, è ancora lontanissima dalle spese americani, che restano, con i 600 miliardi di dollari all’anno versati al Pentagono ben superiori ai 150 miliardi consumati dai cinesi.
Ma la curva delle spese militari Usa è in discesa, quella dei cinesi in ascesa e la convinzione che il Regno di Mezzo, che la Cina non possa continuare a essere il classico “gigante economico” e “nano politico” come una Germania asiatica è ormai radicata nella dirigenza del regime e nel nazionalismo risorgente della popolazione. La scommessa, non soltanto americana, è che lo sviluppo politico e democratico della grande repubblica acceleri e raggiunga finalmente lo sviluppo industriale e tecnologico, spegnendo ambizioni di egemonia e di concorrenza strategica.
Ma i simboli contano, in Asia. Inviare proprio i B52, i vecchi, formidabili bombardieri alla Dottor Stranamore, specialmente detestati in quel continente che li vide coprire di bombe l’Indocina, è un gesto di sfida preciso e rischioso. Il Pentagono, e i falchi che sognano di saldare il conto lasciato aperto dall’ottobre del 1950, farebbero bene a ricordarsi del monito che un grande soldato asiatico rivolse ai propri superiori proprio dopo avere sfidato gli Usa: «Temo che abbiamo svegliato un gigante che dormiva». Anche svegliare il drago non è una buona idea.


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