Quei bambini di Herat nel carcere degli italiani

by Sergio Segio | 5 Novembre 2013 10:25

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 GLI “arrestati”, non ancora giudicati, sono 490, gli altri condannati per omicidi, sequestri, traffico di droga, furti, e i Taliban, che dovrebbero essere separati, in un “blocco 6”, ma non si riesce. «Però non fanno proseliti, agli altri detenuti non piacciono».
Stanno portando decine di detenuti ai processi, attaccati a una lunga catena. L’insieme è miserabile e, all’apparenza, non violento, come se anche la violenza fosse un lusso in una condizione simile. Nel fabbricato centrale c’è un piano sopraelevato «dagli italiani», ancora senza arredi — i letti a castello, cioè. Un agente prende 80 euro al mese. «Dopo due mesi se ne vanno». Settanta detenuti sono condannati all’impiccagione, l’ergastolo non esiste, la pena massima è di vent’anni.
Se al carcere maschile si prova la ripugnanza di sé e di tutto, che prende in certi zoo malmessi, al femminile si è sopraffatti dalla commozione. È stato costruito «dagli italiani», le detenute sono 171, i locali spogli ma decenti, i colori vivaci quanto erano castigati al maschile. Però ci sono i bambini, e ti corrono addosso, ti avvinghiano come se ti stessero aspettando e non ti lasciano più. Stanno con le madri fino ai sei anni, poi li passano all’orfanotrofio. Oggi sono 67, sembrano mille. Il delitto più comune per le donne è la “prostituzione”, da uno a 10 anni: che vuol dire l’adulterio, o l’aver fatto l’amore prima di sposarsi. Ci sono stanzoni di lavoro, grandi telai verticali per i tappeti, macchine da cucire antiche, parrucchieria. Nel cortile donne giovani e vecchie e bambini stanno accampate come a una fermata di corriera che non arriva.
Le condannate per sequestri di persona sono nove, per spaccio due, per omicidio 49, hanno ammazzato «il marito, o la moglie del figlio». Direttrice, dottoresse e personale ispirano fiducia, non fanno che ringraziare e mostrare quello che serve con più urgenza. C’è una stanzetta per i parti, lascio che la racconti la fotografia.
Il comandante è un generale, Abdul Baghi Bessoudi, è arrivato da poco, il precedente è stato travolto da un lungo sciopero della fame. «I detenuti per spaccio sono pesci piccoli. La mafia della droga ha influenza molto in alto, ma qualcuno grosso lo prendiamo. A Kabul ne avevo sette o otto. Se un contadino coltiva il grano si paga un mese, col papavero tre anni. Lo spazio per un carcere rispettoso dei diritti umani lo troveremmo. Abbiamo 10 ettari, se ce li lasciassero vendere potremmo andare fuori città, con una struttura nuova. In alcuni distretti i giudici non vanno, perché hanno paura. A parte questo, la giustizia amministrata dagli anziani, l’omicidio compensato da un riscatto o dalla consegna di una ragazza, sta finendo: è un progresso
necessario e anche una spiegazione del sovraffollamento. Senza gli italiani e la Croce Rossa non sapremmo come fare».
“Gli italiani” qui e altrove ripetuti per essere ringraziati e subito dopo richiesti di qualcos’altro di essenziale, sono il Prt, team di ricostruzione provinciale, ora guidato dal colonnello Vincenzo Grasso, che in sette anni ha impiegato 46 milioni di euro della Difesa per la provincia di Herat in progetti messi a concorso e gestiti dalle autorità locali, anche in comune con la Cooperazione, la Ue o le ong: ospedale pediatrico e ospedale per le tossicodipendenze, scuole, agricoltura. Ieri è stato inaugurato un centro per persone povere con gravi disabilità, che vivono in strada. Anche l’orfanotrofio, che ha 300 bambini e tre sedi: noi visitiamo quello per le 90 femminucce. Dovunque, bambine e bambini hanno imparato a dire «Ciao» e si divertono a ripeterlo all’infinito, e noi con loro, come si fa coi merli indiani, e i merli indiani siamo noi. Il programma del Prt finisce il prossimo 31 marzo. Che cosa succederà poi non si sa, e non solo per il Prt.
Mawlawi Khodadad, 65 anni, due mogli e 12 figli, dirige una scuola con 12mila studenti, 3mila ragazze, e detesta i «falsi Taliban» («il Corano non dice di tagliare la testa alla gente») ed è la più alta autorità religiosa sunnita di Herat. Dice seccamente: «Il nostro problema si chiama Pakistan e Iran. Appena le truppe internazionali saranno partite, l’Afghanistan ridiventerà il centro di Al Qaeda. Soldi e sacrifici buttati». Però una giovane graduata del Genio, reduce da un servizio di prima linea, mi ha detto: «Quando la gente comincia a mettere la freccia per curvare, è difficile che accetti di tornare indietro».

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