Puntuale messaggio di sangue all’Iran

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Gli appuntamenti con l’orrore non sono mai casuali in Medio Oriente. Alla vigilia di un appuntamento decisivo a Ginevra per il raggiungimento di un accordo sul programma nucleare di Tehran, ieri un duplice attentato suicida ha colpito l’ambasciata iraniana a sud di Beirut facendo 23 morti e 146 feriti. Un attacco devastante rivendicato dalle Brigate Abdallah Azzam, una delle tante sigle della galassia di al Qaeda. «Si è trattato di un duplice attentato per il quale due nostri eroi, sunniti libanesi, sono caduti martiri», ha scritto su twitter Sirajeddine Zreikat, un portavoce del gruppo armato indicando indirettamente l’obiettivo sciita delle bombe umane.
Sarebbe ingenuo credere che questi miliziani pronti a morire non siano manovrati da burattinai decisi a mandare un segnale di sangue al nemico sciita iraniano, che ha rotto l’isolamento internazionale in cui era intrappolato da anni e ha avviato un dialogo con gli Stati Uniti. È stato un segnale anche per il movimento Hezbollah, alleato di Tehran, che combatte in Siria in appoggio alle truppe governative.
Ieri nei quartieri meridionali di Beirut, popolati in prevalenza da sciiti, colpiti negli ultimi mesi da attentati devastanti, non pochi abitanti puntavano l’indice contro le petromonarchie accusate di essere lo sponsor dei miliziani anti-Assad e dei gruppi jihadisti. Anche la Siria ha attaccato, senza citarli, i paesi del Golfo : «È odore di petrodollari quello che si diffonde da tutti gli attacchi terroristici contro la Siria, il Libano, l’Iraq», ha denunciato la televisione di stato siriana, con esplicito riferimento all’Arabia saudita e al Qatar, che sostengono la rivolta anti-Assad. Tehran invece attribuisce a Israele la responsabilità del duplice attentato. «L’atto terroristico perpetrato davanti all’ambasciata iraniana è un crimine disumano e odioso opera dei sionisti e dei loro mercenari», ha denunciato il portavoce del ministero degli Esteri iraniano. Ma da Tel Aviv non è giunta alcuna replica.
Scene apocalittiche
I due kamikaze ieri hanno agito in sella a una moto il primo e su un’auto il secondo. Nelle immagini delle telecamere di sorveglianza si vede un uomo che lascia la motocicletta, corre verso l’ambasciata iraniana e aziona la cintura con la dinamite, provocando la prima delle due esplosioni. Poi arriva il secondo attentatore, a bordo di un’automobile, che provoca due minuti dopo una seconda e più devastante deflagrazione. Le televisioni libanesi hanno mostrato scene con corpi carbonizzati o dilaniati, carcasse annerite di autoveicoli, soccorritori che trasportavano cadaveri e feriti gravi. Le stesse scene viste negli attentati compiuti nei mesi scorsi contro i quartieri sciiti e contro due moschee sunnite di Tripoli. Decine di morti frutto del conflitto sempre più aperto divampato in seno ai musulmani libanesi e che hanno spinto il Paese dei Cedri verso il baratro di una seconda guerra civile sull’onda di quella che insanguina la Siria da più di due anni.
È evidente l’intenzione dei gruppi sunniti radicali, libanesi e siriani, di colpire Hezbollah e l’Iran per l’aiuto che danno a Bashar Assad. Nei giorni scorsi, a Tripoli, uomini armati hanno freddato con due colpi alla testa, nel quartiere centrale di Bahsa, Saadeddin Ghiyeh, un importante religioso sunnita sostenitore del regime siriano e accusato di «tradimento».
Partiti che combattono in Siria
Il religioso assassinato aveva fatto parte del gruppo salafita Fatah al Islam, poi ha maturato una forte ostilità nei confronti di al Qaeda e dei sauditi e si è schierato al fianco di Assad e di Hezbollah. Un assassinio al quale il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha risposto ribadendo che il ritiro dei combattenti sciiti dalla Siria non può essere una precondizione per la formazione di un nuovo esecutivo in Libano. «Non vendiamo l’esistenza della Siria e quella del Libano per qualche portafoglio ministeriale», aveva spiegato Nasrallah riferendosi alla situazione politica del Libano. Da mesi la formazione del nuovo governo libanese è paralizzata per il rifiuto della coalizione antisiriana «14 marzo» guidata dall’ex premier Saad Hariri, di formare un esecutivo con i partiti «che combattono in Siria». Una posizione figlia anche delle pressioni dei sauditi volte a ritardare la formazione del governo fino a quando non sarà chiaro l’esito dei negoziati relativi alla questione nucleare iraniana.
Ad aggravare la tensione ci sono i combattimenti tra miliziani anti-Assad e le truppe governative siriane in corso lungo le linee di confine con il Libano. I lealisti che hanno riconquistato il villaggio strategico di Qara e puntano a tagliare le rotte dei rifornimenti che dal Libano raggiungono i ribelli siriani.


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Gli archeologi: da Cirene a Tolemaide, patrimonio immenso senza difese Che cosa accadrebbe se un precisissimo missile diretto contro un radar di Gheddafi deviasse di un pelo la sua virtuosa traiettoria e centrasse il teatro o le terme o il mercato delle rovine romane di Leptis Magna?

Metamorfosi del ribelle

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Inuovi profeti della rivoluzione non somigliano più a Che Guevara. Non pensano che il potere nasca dalla canna del fucile. Semmai da twitter e dai cellulari. Il loro riferimento non sono più Lenin o Mao, e nemmeno Khomeini. Sono Gandhi, Aung San Su Kyi, Nelson Mandela. Predicano e fomentano la ribellione e la disobbedienza civile, non la guerra civile. Sono l’incubo dei dittatori di lungo corso, si sono rivelati capaci, contro ogni previsione, di scuotere e far crollare come castelli di sabbia regimi che sembravano di ferro. La loro “Internazionale” non ha nessun “centro”. Non è riconducibile a nessuna delle ideologie “forti” che avevano segnato il Novecento e nemmeno ai sussulti nazionalistici e religiosi che poi le hanno soppiantate. Non hanno mai preteso di “esportare” alcunché, nemmeno la democrazia. E comunque non alla maniera dei nostalgici di Bush.

I NUOVI PADRONI DELLA FATWA

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COME prevedibile, giunge l’appello di Al Qaeda a continuare le manifestazioni contro il film che denigra il Profeta e attaccare le ambasciate degli Stati Uniti.

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