by Sergio Segio | 25 Novembre 2013 7:07
«L’Italia è sempre stata un nostro partner privilegiato, malgrado qualche temporanea difficoltà». Se lo dice Lui, cioè Vladimir Putin, c’è da crederci. Eppure l’ultimo episodio delle relazioni d’affari tra Italia e Russia non si è svolto all’insegna di una particolare «predilezione». Eni e Enel, ritrovatisi nelle settimane scorse nel bel mezzo di una lotta senza esclusione di colpi tra i “big” russi dell’energia (Gazprom, Novatek e Rosneft, ognuna di esse guidata o influenzata da un «putiniano» di ferro) hanno finito per abbandonare la Siberia Occidentale, vendendo le loro quote nella società mista locale, Severenergia. Ben pagati, certo, ma i due gruppi italiani hanno comunque lasciato non si sa quanto spontaneamente una parte di mondo dove tutte le compagnie petrolifere vorrebbero essere. Un danno collaterale dovuto allo scontro tra oligarchi, come viene definita quella cerchia ristretta di «biznismen» che dall’acciaio alle banche, fino alle tv, governa l’economia russa. Ma quando si tratta di affari, oligarchi o no, nulla a Mosca avviene senza l’assenso dell’inquilino del Cremlino.
Il gasdotto sotto il Mar Nero
Curioso però: se in Russia sono attive un po’ meno di 500 aziende italiane e i grandi conglomerati russi possiedono a vario titolo 91 società a sud delle Alpi, è per un unico progetto che il presidente russo si è sempre «speso» in prima persona: quello del gasdotto South Stream, il «flusso del Sud» che posato sul fondale del Mar Nero in acque turche permetterebbe di aggirare la riottosa Ucraina, portando direttamente nei Balcani e poi verso Italia e Austria il prezioso combustibile. Dal 2007, a più riprese, Putin ha caldeggiato l’operazione a tutti i governi italiani succedutisi fino ad oggi. Insieme a Silvio Berlusconi, nel 2009, ne annunciò il raddoppio. A Romano Prodi offrì la presidenza, ricevendone un rifiuto. Il 7 dicembre scorso ha personalmente tenuto a battesimo la posa del primo tubo sulla costa russa.
Una mossa politica, quella del progetto South Stream: oggi l’Ucraina respinge l’associazione con l’Unione Europea perché altrimenti dovrebbe pagare quasi il doppio il gas che riceve da Mosca. Ma anche una mossa finanziariamente discussa, e discutibile. E’ solo dopo l’arrivo recente come soci dei francesi di Edf e dei tedeschi di Wintershall che la società South Stream Ag ha trasferito la sua sede in Olanda. Prima si trovava nel cantone svizzero di Zugo, noto per garantire aliquote fiscali tra le più basse del mondo, e per chiudere un occhio su completezza e trasparenza dei bilanci aziendali lì depositati. Insomma, non proprio una prova di candore dopo che nel lontano 2005 l’arrivo del gas russo in Italia era stato accompagnato dal coinvolgimento nell’affare di uno sconosciuto gruppo che produceva acqua minerale, il gruppo Mentasti, già socio con Berlusconi in Telepiù. Ora l’Eni ha ridimensionato la sua partecipazione in South Stream, ma la posa del tubo sottomarino continua a far gola alla controllata Saipem, che dopo lo scandalo algerino è alla ricerca del rilancio. Il grosso dei lavori (fino a 5 miliardi di dollari) è ancora da assegnare.
Il futuro della benzina
Va da sé che la fetta maggiore degli affari tra Italia e Russia venga dall’energia: in tempi normali Mosca è il nostro primo fornitore di gas (prima dell’Algeria) e il secondo di petrolio (dopo la Libia). La Russia, in fondo, è un «petro-Stato»: il 50% del budget statale è garantito dal settore energetico, e il Cremlino lo controlla appieno. Un enorme flusso di ricchezza, tanto che le indiscrezioni sulla sua gestione hanno spesso coinvolto anche il presidente russo, che ha sempre sdegnosamente smentito («spazzatura») le voci diffuse da critici e oppositori su sue partecipazioni occulte in società di trading (come la Gunvor del fedelissimo Gennady Timchenko) o petrolifere, come Surguneftegas e Gazprom.
Ombre del passato? Può essere. Ma il presente russo in Italia si intreccia pur sempre con l’energia. A partire dalla raffinazione, un settore in crisi nel quale solo i Paesi produttori hanno margini di guadagno. E così la Lukoil dell’oligarca Vagit Alekperov (quinto uomo più ricco di Russia) ha esercitato nei mesi scorsi l’ultima opzione a comprare dalla Erg dei Garrone ed è salita al 100% nella raffineria di Priolo, in Sicilia. Alekperov, di origine azera e ministro dell’energia ai tempi dell’Urss, non fa strettamente parte del «cerchio magico» di San Pietroburgo che deve tutto a Putin. Come è invece il caso di Alexei Miller, capo di Gazprom con radici pietroburghesi; come il già citato Timchenko; come soprattutto il «duro» Igor Sechin, capo dello staff di Putin quando quest’ultimo era vicesindaco della città baltica e ora amministratore delegato di Rosneft, la più grande delle compagnie petrolifere russe. Un gigante, Rosneft, che non ha comunque disdegnato di fare il suo ingresso nella «piccola» Saras dei Moratti. Per ora con il 21% del capitale, un posto in consiglio, e l’idea di creare una società mista per vendere prodotti petroliferi. Ma non è un mistero che quando i russi entrano in un’azienda lo fanno per comandare, e Rosneft l’ha dimostrato in più occasioni. Per Saras si vedrà, ma intanto la domanda resta: saranno i russi e i cinesi e gli indiani e i sauditi a fare in futuro benzina all’Italia e all’Europa?
Uova Fabergé e la Puglia
Da anni nell’energia italiana (rinnovabili, elettricità e gas) c’è anche un altro magnate, Viktor Vekselberg, di origine ucraina e forse più noto per la sua collezione di nove uova Fabergé. Vekselberg, in rapporti d’affari anche con il fondo Charme, è il proprietario di Renova, una conglomerata da 34 miliardi di euro di fatturato. In Italia si muove con la Avelar guidata dal suo ex direttore finanziario Igor Akhmerov. Affari al sud e buone relazioni con la politica pugliese che conta, anche se le voci più recenti puntano su una prossima uscita dal mercato nazionale. Non sempre, infatti, le attività italiane si dimostrano lucrose per gli oligarchi. Bene lo sa Alexei Mordashov, anche lui studi a San Pietroburgo, che con la Severstal (18,5 miliardi di dollari di ricavi) ha acquistato nel 2005 la Lucchini di Piombino, lasciandola oggi in un mare di guai.
Spumante, Martini e ville
Energia e acciaio, ma non solo: gli interessi russi in Italia sono cresciuti anche nelle telecomunicazioni (la Wind passata dall’egiziano Naguib Sawiris al gruppo Vimpelcom) e nelle bevande (il gruppo Gancia alla Russian Standard di Roustam Tariko, l’ex importatore della Martini & Rossi diventato «re della vodka»). Da ultimo persino nella finanza: il fondo Pamplona guidato da Alexander Knaster – nato a Mosca, emigrato negli Usa dove ha preso la cittadinanza americana, tornato poi in Russia a dirigere Alfa Bank, la maggior banca commerciale privata – è diventato il secondo azionista di Unicredit con il 5%. Forse anche per conto di Deutsche Bank.
Si potrebbe continuare. A rischio però di sottovalutare quella che pare essere diventata la vera passione «collaterale» dell’oligarcato russo: l’acquisto di ville e residenze di lusso in territorio italiano. Qualcuno ha calcolato che su 79 oligarchi moscoviti ben 27 sarebbero in possesso di una mega-villa o castello italiano. Dalla Sardegna alla Toscana, passando per il Garda e il lago Maggiore. L’ultimo avvistato è stato Roman Abramovich, che con la moglie ha visionato lo scorso settembre una villa da una quarantina di milioni a Forte dei Marmi. Segno che la partnership privilegiata di Putin in qualche modo funziona? Dipende. Anche Mordashov, quello della Lucchini, ha comprato qualche anno fa in Sardegna un buen retiro da 13 milioni. Ma a Piombino quattromila lavoratori ora rischiano il posto. Chi lo ricorderà allo zar di tutte le Russie?
Stefano Agnoli
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