by Sergio Segio | 29 Novembre 2013 7:06
ROMA — Era prevedibile per tutti, e da giorni. I dirigenti di Forza Italia sono saliti al Quirinale e, dopo l’uscita del partito dalla maggioranza, hanno chiesto l’apertura della crisi, con le rituali dimissioni del premier «nella mani del capo dello Stato», seguite da una «conta» nelle aule parlamentari. Troppo semplice, insomma, credere che l’ultimo voto di fiducia ottenuto dall’esecutivo (per inciso su quel provvedimento cruciale che un tempo si chiamava Finanziaria) per loro bastasse a sanare la mutilazione prodotta dal ritiro del partito berlusconiano. «Non vale, serve altro», dicevano. Anche perché, aggiungevano, sono cambiati il perimetro, la formula e la stessa natura della maggioranza, nata sette mesi fa. Questa era l’annunciata recriminazione. E poco importava che apparisse più o meno come un pretesto, un modo per fare movimento e «ciurlare nel manico», come ha subito detto qualcuno a Montecitorio, con una sintesi ruvida e sbrigativa. Da quella linea i forzisti non intendevano arretrare.
Imprevisto per tanti, invece, che il presidente della Repubblica concordasse. Chiarendo che, sì, «un passaggio parlamentare ci sarà, senza dubbio, per segnare la discontinuità politica tra il governo delle larghe intese» e la nuova compagine «che ha ricevuto la fiducia sulla legge di Stabilità». Quando, e come? Presto, molto presto, si fa sapere. Quando, cioè, Giorgio Napolitano ne avrà discusso con Enrico Letta. Per concordare insieme «forme e tempi» di questa «exit strategy».
Un mezzo cedimento — perché non a caso si parla di «passaggio parlamentare», non ancora di una crisi vera e propria — dopo che si era sottolineato come l’ampia fiducia incassata dall’esecutivo martedì fosse sufficiente a sanare l’uscita dalla coalizione di FI e non servisse ricorrere alle procedure della crisi formale? Un gesto d’attenzione? Una prova di sensibilità, chiamiamola così, verso i componenti di una delegazione che apparivano ancora emotivamente piuttosto scossi per la decadenza del loro leader?
In realtà quell’apertura (che va considerata a integrazione del consenso già incassato dal premier, orientato peraltro a non fare rimpasti) sembra mirata a sdrammatizzare i toni estremi della sfida, nelle vesti di una «nuova opposizione», con cui il movimento del Cavaliere si esprime, sentendosi ormai in campagna elettorale. Sembra, insomma, un modo per svelenire il clima e sterilizzare l’escalation di tensione, da parte del capo dello Stato. E soprattutto per non chiudere subito la questione delle riforme, che rientra nella «mission» del governo e alla quale il presidente tiene molto. Il gruppo di Forza Italia, dopo aver reiterato le denunce e le ultime critiche su come Silvio Berlusconi è stato messo alla porta a Palazzo Madama, non si è mostrato pregiudizialmente indisponibile a dialogare su questo terreno. Ma i veri spazi di manovra, da allargare magari attraverso uno spacchettamento dei vari capitoli, si vedranno in tempi rapidi. E molto dipenderà anche da chi diventerà segretario del Partito democratico, alle primarie dell’8 dicembre.
Comunque quel che ha sentito ieri è già qualcosa, per Napolitano. La sua scommessa è di far imboccare al Paese la strada per costruire la tanto evocata Terza Repubblica, realizzando appunto quella serie di correzioni istituzionali di cui il Paese ha bisogno. L’alternativa, insopportabile per lui (e per Letta), sarebbe che ci si adattasse a un traghettamento verso un approdo più incerto, galleggiando nell’ordinaria amministrazione. Insomma, bisogna capire se sta ancora in piedi l’ipotesi che questa legislatura assuma, e soprattutto mantenga, un carattere costituente.
Per verificarlo il capo dello Stato ha cominciato ieri una ricognizione ad ampio spettro, convocando un paio di ministri e anche (per quasi due ore) la folta delegazione di Forza Italia. In cima alle sue preoccupazioni c’è la riscrittura del Porcellum, sulla quale incombe l’imminente pronunciamento della Corte costituzionale. Su questo snodo, auspica che si costruisca un nuovo patto. Anche se, dopo aver incalzato i partiti fino alla noia, ha parecchi motivi di sfiducia.
Marzio Breda
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