Malore e lacrime sul palco Il giorno dei falchi tristi
ROMA — Hanno l’aria mesta anche i vincitori. «Non è stato un giorno di festa. Siamo sinceramente dispiaciuti per il dolore del presidente. Ma ormai non c’era altra scelta». Denis Verdini, con Daniela Santanché e Raffaele Fitto, sta fumando una sigaretta seduto sui gradini di un’uscita laterale: «Alfano e i suoi hanno raccontato un sacco di balle, ora con il notaio certifichiamo i numeri con cui abbiamo appena fatto rinascere Forza Italia…».
Dolore è la parola del giorno. Dolore anche fisico, che Berlusconi somatizza prima sul passaggio dedicato agli scissionisti e poi alla fine, sorretto dal medico personale professor Zangrillo – «beva subito questo!» – e assistito da Brunetta. Il capogruppo gli balza accanto, gli stringe la mano sorridendo amorevole, forse assaggia anche lui la pozione magica, fatto sta che proclama la rifondazione del partito con voce stentorea tipo l’altro ventennio. Berlusconi parla invece di «dipartita» di Forza Italia dal Pdl. E ancora, alludendo all’addio di Alfano: «Ci ha fatto molto dolore venirlo a sapere dalle agenzie…».
Né poteva attutire la sofferenza il clima di revival, che semmai la stempera nella malinconia, acuita dalla pioggia novembrina. Il Cavaliere è affiancato da Rocco Crimi, il tesoriere, come a segnalare che gli scissionisti non sono riusciti a fuggire con la cassa, e da Antonio Martino, il cofondatore, gli occhi lucidi e il telefonino al collo. Si rivede Scajola. Finalmente una new entry: il leggendario Scilipoti. Su altri volti i segni del tempo e del chirurgo estetico. Hanno, abbiamo tutti vent’anni in più, però il contrasto più crudele è quello con il video nostalgico del 1994, che mostra un Berlusconi senza capelli ma tonico, il microfono in mano, il piglio deciso di chi sente che il futuro gli appartiene, il doppiopetto a fasciarlo come un body, due o tre taglie in meno di quello che oggi lo gonfia come un caffetano. Solo l’inno e gli argomenti sono gli stessi: il comunismo «ideologia più criminale della storia», la magistratura «che vuole portare al governo la sinistra», i «professionisti dei brogli che ci hanno rubato da un milione e 600 mila voti in su», la rivoluzione liberale «che non siamo riusciti a fare»; ma «siccome siamo inguaribili ottimisti, ci riproviamo».
La prima linea non è esattamente freschissima: Carraro, Galan, Nitto Palma con la camicia di jeans fuori dai pantaloni. Visti anche Iva Zanicchi sovrappeso e Fabio Testi. Si discute se la Pascale verrà, se la Santelli si farà vedere, se la scissionista Saltamartini possa ripensarci. L’età media è abbassata dai fratelli Zappacosta e dai loro amici, che Cicchitto chiama «giovinastri»: spicca una ragazza con cappotto verde e tacco 20, praticamente su trampoli. Alfano non è mai citato per nome, ma al solo accenno la platea grida «buffone» e «traditore». Sorrisi per il pullman della ditta «Angelino» parcheggiato sul retro del palazzo.
La frattura voluta dai falchi è stata subìta sia dal vicepremier sia da Berlusconi, consapevoli che entrambi hanno tutto da perdere: il «nuovo centrodestra» è atteso da prove elettorali durissime, punta tutto sul governo e sul patto con Enrico Letta, che però già l’8 dicembre uscirà indebolito dall’inevitabile vittoria di Renzi alle primarie; la nuova Forza Italia è già in campagna elettorale, ma Berlusconi non sembra ansioso di gettarsi verso un altro voto anticipato, non a caso si trincera dietro il Porcellum, «che ha un brutto nome ma non è una cattiva legge».
Non esistono buoni e cattivi, ragioni o torti: il discrimine è un altro; chi è al governo decide di restarci, chi è fuori trascina Berlusconi all’opposizione. «È la sindrome del “quando mi ricapita” — dice Osvaldo Napoli, uno dei mediatori —. Capisco chi è andato via: sono diventati ministri quasi per caso, è umano che vogliano restarlo. Certo senza Berlusconi non sarebbero dove sono, ci vorrebbe un po’ di riconoscenza…».
Il Cavaliere sempre più melanconico cita Colletti e Urbani, «che il tempo ha allontanato dalla vita o da noi». Riconosce il fallimento del Pdl, con Fini messo sullo stesso piano dei Verdi, della «signora Craxi», degli «Italiani nel mondo», il partito di Sergio De Gregorio, che gli costerà un altro processo. A parte qualche punzecchiatura — «potrebbero chiamarsi “Cugini d’Italia…”» —, è attento a non rompere del tutto con Alfano, accostato a Maroni e a La Russa, i capi dei partiti alleati. Capezzone, che si sta stempiando, applaude stirando le labbra con sussiego. Poi Berlusconi si inoltra in una lunga analisi, anche condivisibile ma un po’ surreale, sui mali del mondo globale, i vantaggi competitivi dell’India — dove da premier non è mai stato —, le lacune di un’Italia che «non chiude il pareggio in bilancio dal 1875 e non cresce da vent’anni» — proprio quelli del suo impegno politico —, l’euro «moneta straniera» e le prepotenze della Germania, su cui imposterà la campagna per le Europee.
Alla fine dà l’impressione di sbadigliare del suo stesso discorso, ma sono le avvisaglie del leggero malore, sventato dal dottor Zangrillo e dal premuroso Brunetta. La Santelli c’è, arriva pure la Pascale, la Saltamartini non viene e non verrà. Si ride perché il nome «nuovo centrodestra» è già stato registrato da Italo Bocchino. Caldoro, presidente della Campania, ex socialista: «Le scissioni sono sempre sbagliate, nel ‘92 noi sbagliammo con Craxi, speriamo che qui finisca diversamente…». I fotografi tentano di inquadrare i trampoli dell’amica dei fratelli Zappacosta, che però fanno quadrato, si sfiora la rissa. Il notaio certifica che i voti per la nuova Forza Italia sono 613. Berlusconi invita a rileggersi i testi sacri del 1994: «Non c’è una sola parola da cambiare».
Aldo Cazzullo
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