by Sergio Segio | 11 Novembre 2013 6:18
IMPOSSIBILE dimenticare il 2012, per chiunque lo abbia vissuto in Italia. L’anno in cui moltissimi iniziarono a sospettare che forse, per questa volta, non ci sarebbe stato un lieto fine. Niente gol alla Rivera del 4 a 3 contro la Germania all’ultimo minuto dei supplementari. Niente rimonta impossibile per accedere dalla porta principale nel club della moneta più forte del mondo solo cinque anni dopo aver sfiorato il default, come accadde fra 1992 e il 1997.
No. Vent’anni dopo, nel 2012, sul Paese ha iniziato a stendersi l’ombra del dubbio che stavolta la durezza della crisi finanziaria, poi della recessione economica, sarebbe stata definitiva. Avrebbe lasciato il segno: gli stili di vita non sarebbero tornati ai tempi migliori così presto e ciò che si credeva possibile nella vita, non lo sarebbe stato più. Per intere generazioni, cambiava la portata delle aspirazioni.
Ma davvero è andata così? La contabilità dei numeri, che di solito si presume fredda, racconta una sua storia con un colpo di scena finale. Basta fare qualche conto per capire che l’Italia del 2012 è una forbice sghemba.
Moltissimi sono nella gamba che va giù, ma questa è legata indissolubilmente alla gamba (molto più piccola) di quelli che vanno su. È un’Italia a doppia direzione in cui quasi nessuno resta fermo in mezzo, dov’era prima del grande crollo. Chi sta sempre meglio deve il suo cambio di condizione alla crisi tanto quanto chi sta sempre peggio.
Ecco la contabilità del 2012. Numero delle imprese fallite nel 2012: 12.463, ossia 34 al giorno. Variazione nel numero di persone che, ufficialmente, sono rimaste senza un posto di lavoro: più 507 mila, oltre mezzo milione (senza considerare le centinaia di migliaia in cassa integrazione). Andamento del prodotto interno lordo: meno 2,4%, il peggior crollo del fatturato nel dopoguerra dopo quello indotto nel 2009 dal fallimento di Lehman Brothers.
E il numero dei ricchi? Be’, quello è un’altra storia. Una vicenda uguale e contraria. I ricchi aumentano nel 2012. Per la precisione, 127 mila italiani in più il cui patrimonio stimato supera il milione di dollari americani. L’equivalente di una città di medie dimensioni. I milionari in dollari d’Italia erano un milione e 412 mila alla fine del 2011 e sono saliti a un milione e 529 mila alla fine del 2012. In sostanza, mentre l’economia metteva la retromarcia, le imprese morivano a migliaia al mese e le persone restavano senza lavoro, mentre gran parte degli italiani vivevano la fine dell’idea che ci sarebbe sempre stato un lieto fine, uno stellone nazionale, per alcuni le cose andavano un diversamente.
I milionari d’Italia (in dollari) sono aumentati del 9,5%. Nel 2012 horribilis.
I dati sono contenuti nel numero di ottobre 2013 del Global Wealth Report dell’istituto di ricerca del Credit Suisse, la banca svizzera specializzata nella gestione di patrimoni. E sollevano subito una domanda: possibile? Certo il forte aumento del numero di ricchi in dollari, in Italia, non può essere dovuto a un rafforzamento dell’euro sul dollaro in quell’anno che falsa il calcolo. La variazione
fra le due grandi valute dal primo e all’ultimo giorno dell’anno scorso è stata infatti trascurabile, appena dello 0,5% per cento. Né si può spiegare questo improvviso aumento dei milionari italiani con l’aumento del prezzo dei beni immobiliari,
che peraltro sono inseriti nella stima. Le quotazioni della casa, semmai, non si sono mosse o sono scese di circa il 5%.
Dunque deve esserci qualcos’altro che getta luce sull’andamento a forbice dell’economia italiana. Un indizio lo fornisce per esempio il Ftse Mib, il listino principale di Milano, che nel 2012 è salito in una percentuale curiosamente simile alla variazione nel numero di milionari d’Italia: se questi ultimi sono cresciuti del 9,5%, la Borsa di Piazza Affari è salita dell’8,5%. Una seconda traccia viene poi dagli andamenti delle obbligazioni, in particolare dei titoli di Stato italiani. Nel primo giorno del 2012 un Btp a dieci anni rendeva il 7,068%, nell’ultimo giorno di quello stesso anno invece solo il 4,49. Poiché i prezzi dei bond si muovono in direzione inversa rispetto ai loro rendimenti — salgono quando questi ultimi scendono — si ricava che le quotazioni della famiglia dei Btp sono cresciute nel 2012 di circa il 10% sull’insieme delle scadenze dai tre mesi ai dieci anni. Di nuovo, un’impennata sorprendentemente simile a quella nel numero dei milionari.
Se due indizi fanno quasi una prova, ecco dunque la spiegazione più probabile dell’aumento degli italiani ricchi mentre tanti altri si avvicinavano alla povertà: moltissimi di quei 120 mila milionari in più, sono diventati tali perché è salito il valore del loro patrimonio investito in azioni o obbligazioni. È un fenomeno impossibile da cogliere se si guarda alle dichiarazioni dei redditi, perché i profitti da capitale sono tassati alla fonte in banca e non rientrano nelle denuncie e nei prelievi Irpef. E ovviamente non tutti i ricchi in Italia investono tutto il loro patrimonio in società quotate a Milano o in titoli del Tesoro. Ma molto sì, e quell’andamento al rialzo in Italia è pur sempre indicativo di ciò che è accaduto anche in altri mercati finanziari d’Europa o negli Stati Uniti.
In sostanza: le imprese italiane nel 2012 fallivano o licenziavano, ma chi aveva patrimoni liquidi e li investiva stava sempre meglio. È uno dei paradossi della crisi. La famosa progressione dell’1% più ricco, e dello 0,1% al suo interno, che in America ha colto gran parte dei frutti della ripresa in questi anni.
Ciò che però caratterizza l’Italia forse ancora più degli Stati Uniti, che quest’aumento di ricchezza al vertice della società è in buona parte frutto della crisi proprio come lo è l’aumento della povertà. Ci sono pochi dubbi infatti su quali siano i fattori che hanno fatto salire le Borse e le quotazioni dei bond nel 2012: è stata la risposta delle grandi banche centrali, la Federal Reserve e la Banca centrale europea, al rischio di collasso del sistema finanziario. Fra la fine del 2011 e la fine del 2012 la Bce per esempio ha espanso il suo bilancio, cioè ha creato e immesso in circolazione moneta, di circa 900 miliardi di euro. Le sue due offerte di denaro a lungo termine e tassi bassi di fine 2011-inizio 2012 hanno distribuito alle banche circa mille miliardi lordi (500 netti). La Fed nel settembre del 2012 ha lanciato un programma di stampa di 85 miliardi di dollari al mese, con i quali ha comprato obbligazioni sul mercato.
Sono state le grandi banche centrali, con le loro enormi ondate di liquidità, che hanno fatto salire tutte le barche sui mercati finanziari. Le loro azioni hanno fatto crescere la Borsa e i prezzi dei bond e, chi aveva patrimoni, ne ha beneficiato.
È uno dei grandi paradossi di questa crisi. Se Mario Draghi e Ben Bernanke, i leader di Bce e Fed, si fossero astenuti dall’agire, anche chi si è impoverito nel 2012 si sarebbe impoverito ancora di più. Il collasso del sistema dell’euro e del debito italiano sarebbero stati più probabili. Ma con le loro decisioni, le banche centrali hanno involontariamente permesso a pochi privilegiati di diventare tali sempre di più. Ora tocca alle democrazie occidentali, non ai banchieri centrali, gestire le conseguenze di quest’ultimo morso della crisi.
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